IFE Italia

Cile: la speranza di una vita degna

di Marta Dillon
martedì 12 novembre 2019

"La scorsa settimana in Cile qualcosa è diventato evidente, che si tratta di un movimento di desiderio, non solo contro il sistema, contro una costituzione scritta durante la dittatura e che consegna tutto il capitale pubblico a mani private - nemmeno dell’acqua si può disporre perché è anche nelle mani di aziende private -, ma anche contro forme di vita che privano del controllo del proprio corpo."

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Il messaggio arriva con la solita musica degli ultimi giorni in ogni audio di Whatsapp che si incrocia: il suono di pentole e padelle che vengono colpite. "No, cara, nessuno si arrende qui, siamo in Plaza Italia e ci rimaniamo", dice e continua con la descrizione dei progetti futuri: ancora pentole e tegami alle 21 di sera, marcia il lunedì, lo sciopero, le assemblee in tutti i quartieri, i municipi aperti che dallo scorso giovedì hanno cominciato ad essere organizzati in piazze, centri sociali, sindacati, club.

La fine del coprifuoco annunciato ieri mattina (domenica, ndt) dalle forze armate non ripristina il senso di normalità che il Presidente Sebastián Piñera sta cercando di trasmettere. Perché se si avverte paura nell’aria inquinata di Santiago del Cile, è che questo succeda e che la trasformazione strutturale che la strada richiede con l’imponente forza dimostrata questo venerdì venga addomesticata con un paio di misure. "Siamo in un momento storico in cui speriamo di costruire una vita dignitosa", dice il primo punto di accordo dell’assemblea di Yungay, uno dei comuni del sud della regione metropolitana e questa frase esprime tutto ciò che si agita in ogni corpo: una sensazione di tutto o niente, ora o mai più; il territorio transandino si è risvegliato e adesso bisogna mantenerlo vivo in questa veglia di dibattiti condivisi, immaginazione politica, descrizione di ciò che non si accetta più. Accanto all’assemblea degli adulti e delle adulte, ce n’è un altra, di bambini e bambini. Anche lì si discute e decorano le bandiere con gli slogan che sono stati articolati nell’ultima settimana; tra questi uno: "Racconteremo un’altra storia". Ed è di questo che si tratta, dare un taglio alla storia passata e iniziare a disegnarne una nuova.

Un paesaggio lunare si vedeva dagli scarti illuminati dalle luci dell’auto. I pneumatici hanno sofferto nel rotolare su questo territorio grigio pieno di macerie di diverse dimensioni, sempre molto più grandi di un pugno. Era l’ultima notte di coprifuoco nella rotonda di Plaza Italia, nel centro di Santiago, due volte buia, senza lanterne o segni luminosi. I camion dell’esercito la custodivano, posti di blocco nelle ombre dai quali i militari puntano i passanti con una torcia elettrica per richiedere il lasciapassare necessario per circolare. E’ impossibile non provare la paura che provavo da bambina di fronte ai militari che, come tenaglie, hanno improvvisamente soffocato una parte della città di Buenos Aires nel bel mezzo di una dittatura militare. Ma adesso ai soldati è stato permesso di chiedere la documentazione da un presidente eletto con un voto a cui ha partecipato meno del 40 per cento della popolazione. Ora un movimento che cerca forme di organizzazione al di fuori di quelle stabilite dalle norme richiede le sue dimissioni. È la norma ciò che si vuole cambiare: "Assemblea Costituente" è la richiesta che insiste.

Avanzando lungo Avenida Vicuña Makena verso la catena montuosa, l’oscurità si fa più fitta. L’auto segue la linea della metropolitana che, dopo circa cinque chilometri dal centro, è aerea. E’ facile vedere le tracce dell’incendio scoppiato nei primi giorni. Una settimana dopo, candele vengono accese nelle stazioni in memoria di chi è morto a causa della repressione, queste candele sono state accese violando il coprifuoco e nella notte illuminano le foto con i volti di chi è caduto durante la rivolta. Sul marciapiede dell’autostrada, a intermittenza, si vedono gruppi di vicini di casa indossare gilet gialli fluorescenti. Gli stessi poliziotti li distribuivano "per riconoscerci dai vandali", dice Gonzalo, alla porta di un condominio che raccoglie 112 case. è il leader del gruppo che fa la guardia in turni di tre ore per impedire che "vengano a saccheggiare". Ma c’è mai stato un saccheggio di case? “No, ma hanno saccheggiato un supermercato nelle vicinanze", risponde e chiarisce subito: "Ci stiamo prendendo cura l’uno dell’altro, questo è quello che dobbiamo fare. Appoggiamo anche la mobilitazione. Contro i criminali che saccheggiano ma a favore del popolo. È difficile perché non vogliamo la distruzione ma allo stesso tempo se le stazioni non fossero bruciate non ci avrebbero ascoltato e tutto sarebbe rimasto uguale a prima. È una contraddizione, ma è così. Questo è ciò in cui ci hanno trascinato.” La riflessione di Gonzalo si ripeterà più e più volte lungo il percorso, la paura dei "vandali" è distinta dalla necessità di protestare e cambiare tutto, il fatto che i poliziotti abbiano dato loro i gilet non significa che appoggino il governo, in alcun modo. Non è possibile stigmatizzare queste persone come fascisti - cosa che è stata sentita in molte delle assemblee che discutono apertamente su come trasformare l’esplosione in organizzazione - solo perché il politico di estrema destra José Antonio Kast ha promesso una marcia di gilet gialli come protesta contro il neoliberismo. Tutti i gruppi di vicini consultati - circa sette - si dissociano da quella posizione, ma affermano il loro diritto di vigilare e portare i bastoni come autodifesa. Proprio come i "chiquillos y chiquillas" [1] che allestiscono le barricate per difendersi dalla repressione nel centro di Santiago, restituiscono i gas lanciati contro di loro e fanno macerie per allontanare i "pacos" [2]. "Ognuno ha la sua funzione nelle mobilitazioni, alcuni come me stanno facendo ronde di scrittori, letture collettive per esprimerci, altri ci proteggono dalla repressione; è molto chiaro", dice Cristian Chamorro, uno studente di antropologia e poeta che ha camminato quaranta isolati prima che lo raccogliessimo in autostop, cercando di raggiungere Puente Alto, una stazione completamente bruciata.

Se Piñera ha sospeso il coprifuoco, non è perché la "normalità" è tornata, è perché all’abuso è stato risposto con l’autodifesa e questo, evidente nella volontà popolare che si esprime ogni giorno, si vive come un diritto. Il monopolio della violenza può essere nelle mani dello Stato, ma in Cile vi è stato posto un limite.

Una laurea in ingegneria costa 100.000 dollari. Un trattamento di chemioterapia, 20.000. Queste cifre sono molto chiare per Johana, che è all’ultima delle 16 sedute di chemio che ha dovuto affrontare e che "calva come me" è andata a Villa Frei, molto lontana da casa, a leggere ai bambini mentre le madri e i padri erano in assemblea; e per Angelo, uno studente, indebitato, come l’intera popolazione cilena, per studiare o meno, per comprare una casa - solo il 5% della popolazione sarebbe ora in grado di farlo - per pagare la bolletta dell’energia elettrica che avevano promesso di abbassare. I due sono saliti in macchina durante il viaggio notturno dopo aver percorso chilometri a piedi perché il coprifuoco li ha sorpresi troppo lontani dalle loro case. Johana è riuscita a pagare solo il 20 per cento del trattamento di cui ha bisogno e questo lo legge come una fortuna inaudita, il risultato di un complicato processo per certificare il suo stato di povertà. Angelo ha anche ottenuto una certa riduzione del suo debito perché ha il nonno e la nonna a carico. Entrambi lo sanno e dicono che la situazione è un abuso. Proprio come Ana, un gilet giallo e un nunchaku [3] sotto il braccio che lei non saprebbe utilizzare se ne avesse bisogno: "Versano contributi per la tua pensione come se tu vivessi 110 anni, questo è il numero reale, non è un’approssimazione. Non ti permettono nemmeno di disporre del 20 percento quando vai in pensione, neppure del 10 percento, si va in pensione a 65 anni ma assegnano la pensione come se si dovesse vivere 45 anni in più. È un abuso.”

La scorsa settimana in Cile qualcosa è diventato evidente, che si tratta di un movimento di desiderio, non solo contro il sistema, contro una costituzione scritta durante la dittatura e che consegna tutto il capitale pubblico a mani private - nemmeno dell’acqua si può disporre perché è anche nelle mani di aziende private -, ma anche contro forme di vita che privano del controllo del proprio corpo. Come mai prima d’ora, la violenza sessuale ha avuto uno status pubblico, è diventata visibile come anche la violenza sessuale applicata dal terrorismo di Stato. E non è solo contro la violenza, è a favore di essere chi si vuole essere e di amare chi si vuole amare. Non a caso i movimenti che si ritengono precursori di questo, oltre alle mobilitazioni studentesche del 2006 e 2011, sono le mobilitazioni universitarie contro la violenza sessuale nel 2018 e lo sciopero femminista 8M nel 2019. Lì si stava accumulando il valore del NO, di Basta Ya, la denaturalizzazione di ciò che veniva sopportato come se non ci fosse via d’uscita. Le vie d’ uscita esplodono di fronte alla faccia del potere e se c’è qualcosa che viene saccheggiato è l’uso della parola pubblica da parte delle élite politiche ed economiche. Ora la parola è messa in strada e scritta sui corpi, dice "No agli abusi" e parla, soprattutto, di dignità.

*Fonte: pagina12.com.ar/227607-la-esperanza-de-una-vida-digna

Traduzione a cura di Flaminia Gaia Apollonio


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