IFE Italia

La lingua dell’amore è quella del dominio

di Lea Melandri
venerdì 13 gennaio 2017

L’intreccio tra amore e potere, amore e violenza, è una parentela che non si vorrebbe vedere e che raramente viene nominata, analizzata, nel dibattito pubblico sulla violenza maschile contro le donne. Salvo stupirsi quando si viene a sapere che una donna torna a vivere col proprio aggressore.

È giusto, tuttavia, che io precisi che cosa intendo in questo caso per “amore”. Mi riferisco all’amore così come l’abbiamo conosciuto finora, come l’abbiamo ereditato da secoli di storia, così come si è potuto o dovuto manifestare all’interno del rapporto di potere tra i sessi. Dobbiamo riconoscere, quando parliamo della questione uomo-donna, che siamo di fronte a un dominio del tutto particolare, diverso da tutti gli altri, in quanto passa attraverso le relazioni più intime – la nascita, la sessualità, la maternità, i legami famigliari, ecc.. -, e che forse è proprio questa particolarità la ragione per cui appare così lento, difficile, contrastato il suo approdo alla coscienza di tanti uomini e donne. È vero che oggi se ne parla più che in passato – si nominano il sessismo e il maschilismo -, soprattutto da quando, all’inizio del 2000, sono usciti i dati allarmanti sulla violenza domestica, a cui hanno fatto seguito le grandi manifestazioni del femminismo nel 2006-2007. Recentemente, sono stati presi anche provvedimenti legislativi – penso al “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”-, si discute sempre di più della necessità dell’ “educazione di genere” nella scuola, per prevenire un fenomeno che si riconosce finalmente “strutturale”, legato alla ‘normalità’ del rapporto tra i sessi, così come lo abbiamo ereditato. Eppure si ha l’impressione che questa realtà, la più universale – in quanto attraversa la storia di tutti i popoli e di tutte le culture- e per certi versi la più scoperta, la più vistosa – in quanto sotto gli occhi di tutti -, resti un’evidenza invisibile.

Se ci limitiamo alla violenza nelle sue forme manifeste – stupri, maltrattamenti, omicidi, ecc.- sappiamo infatti quanto è diffusa e al medesimo tempo sfuggente: molti non la considerano neppure un reato, poche ancora le donne che la denunciano, per non parlare di quelle che tornano a vivere con chi ha tentato di ucciderle. Le domande che vengono immediate sono: “Perché?”, “Come mai una violenza, un dominio che datano da secoli appaiono oggi un’emergenza?”, “Perché le donne stesse che la subiscono quotidianamente esitano a portarla allo scoperto?”, “È solo per paura o perché è ancora difficile riconoscerla, distinguerla dall’amore?”.

Le risposte che mi sono data vengono dalla mia vita personale, da esperienze dolorose legate alla mia famiglia d’origine, e soprattutto da quel salto della coscienza storica che è stato il femminismo degli anni Settanta. L’intuizione più originale è stata allora rendersi conto che le donne, escluse dalla sfera pubblica, e perciò anche dall’istruzione, dalla cultura, hanno dovuta far propria, forzatamente, la visione maschile del mondo, con adattamenti, resistenze, ma anche tentativi di strappare un qualche potere e piacere proprio. È quella che chiamai allora violenza invisibile: la vittima parla la stessa lingua dell’aggressore. Questo significò per me portare l’analisi all’origine del rapporto tra i sessi, cercare di capire le ragioni più o meno consapevoli della differenziazione violenta che ha identificato la donna con la natura, il corpo, la mortalità, e l’uomo, il principio maschile con il linguaggio, la storia, la spiritualità. Di questo dualismo sessuale, dato come legge “di natura”, parla tutta la cultura greco romana cristiana. Scrive Bachofen: "Se il principio della maternità è comune a tutte le sfere della creazione tellurica, ammettendo la predominanza della sfera procreante, l’uomo si strappa a quel vincolo e prende coscienza della sua superiore vocazione. La vita spirituale si eleva al di sopra di quella fisica, ed i rapporti con le sfere inferiori della creazione vengono limitati a quest’ultima. La maternità fa parte della componente carnale dell’uomo, e solo su di essa si basa ormai il suo legame con gli altri esseri viventi; il principio paterno spirituale, invece, appartiene solo a lui (…) La paternità vittoriosa si ricollega evidentemente alla luce celeste, così come la maternità che partorisce è in rapporto con la terra madre di tutte le cose”. A meno di non pensare che l’uomo, malvagio per indole naturale, abbia consapevolmente, volutamente asservito a sé l’altro sesso, si deve portare l’attenzione sull’enigma dell’origine, senza aver paura di trovarvi contraddizioni, ambiguità. Gli uomini sono i figli delle donne. Il corpo che hanno sottomesso alla loro legge, sfruttato e violato in tutti i modi, è il corpo che li ha generati, che ha dato loro le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo diverso dal loro che ritrovano nella vita amorosa adulta e con cui sognano di rivivere l’esperienza della nascita: l’originaria parziale indistinzione tra madre e figlio, l’appartenenza intima a un altro essere. Ma per capire come mai questo corpo susciti negli uomini amore e odio, bisogna anche dire che il corpo femminile materno è quello che li ha tenuti in sua balìa nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità, che poteva dare loro la vita o la morte, accadimento o abbandono. Dove la posizioni si capovolgono è nell’accoppiamento, vissuto immaginariamente come un ritorno nel ventre materno, ma, questa volta, come la “vittoria sul trauma della nascita” (Sàndor Ferenczi) e come presa di possesso di un corpo vissuto prima come potente e minaccioso. La vita amorosa adulta appare così, da un lato, come un prolungamento della relazione originaria madre-figlio; dall’altro, come capovolgimento delle parti: l’uomo assume su di sé il potere generativo e si assicura col dominio la continuità delle cure che ha ricevuto dal corpo femminile. Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della sessualità, garanzia di sopravvivenza materiale e affettiva, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.

Per capire che cos’è il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria nella vita amorosa adulta e come sia intrecciato, confuso con rapporti di potere, di violenza, sono illuminanti alcune pagine del saggio di Freud, “Il disagio della civiltà”, e dell’“Introduzione al narcisismo”. La domanda da cui parte Freud è: che cosa desiderano di più gli uomini ottenere nella loro vita? La risposta è semplice: “diventare e rimanere felici”. E questa felicità la collocano nell’amore – amare e essere amati -; anzi, nell’amore così come lo hanno conosciuto nel rapporto originario con la madre, quando l’amore di sé e l’amore dell’altro ancora non erano separati, quando Io e Tu erano ancora tutt’uno. Essenza di Eros – dice Freud – è “fare di più d’uno uno”. Il modello di ogni felicità viene dall’esperienza originaria, è legato a un desiderio primordiale che ricompare nell’innamoramento. “Al culmine dell’innamoramento, il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se le cose stessero così”. “Nella vita amorosa il non essere amati sminuisce il sentimento di sé, mentre l’essere amati lo innalza (…) La persona innamorata è umile. Chi ama ha perduto, per così dire, una parte del proprio narcisismo e può riconquistarlo solo se è amato a sua volta. A quel che pare, in ciascuna di queste relazioni, il sentimento di sé si mantiene in rapporto con la componente narcisistica della vita amorosa”. “…d’altra parte un amore felice vero e proprio corrisponde all’originaria situazione in cui non è possibile distinguere fra libido d’oggetto e libido dell’Io”. Quello che è interessante notare è che Freud ha molto presente l’ambiguità e le contraddizioni del rapporto uomo-donna; per descrivere il potere che la civiltà ha esercitato sulla sessualità e sulla donna, che ne è stata fatta custode, usa immagini guerresche. “L’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo di difendersi se viene attaccata; ma occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturalo e a ucciderlo”. “Così la donna si vede relegata in secondo piano dalle pretese della civiltà ed entra in rapporto ostile con essa (…). In questo rispetto la civiltà di comporta verso la sessualità come una stirpe o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo. Il timore dell’insurrezione di ciò che è stato represso spinge a severe misure precauzionali…”. Ciò nonostante, non vede l’intreccio tra amore e odio, tra pulsione di vita e pulsione di morte, anche se riconosce che non si dà mai l’una senza l’altra. A fare da velo è l’idealizzazione della copia madre-figlio maschio, la “diade amorosa”, l’ unica forse esente da ambivalenze, dice Freud, tanto che se ne augura la continuità nella coppia adulta: un matrimonio si può considerare stabile quando la donna ha fatto dell’uomo un figlio. Quello che Freud sembra non vedere è che la pulsione aggressiva si annida proprio dentro l’amore come sogno fusionale, prolungamento della fase narcisistica originaria. È questo modello d’amore che stringe vincoli di indispensabilità reciproca, al di là del bisogno reale, appropriazione, cancellazione dell’individualità e dell’autonomia dell’altro.

Pierre Bourdieu, nelle pagine finali del suo libro “Il dominio maschile”, in un Postscritto su “Il dominio e l’amore”, si chiede se “l’universo incantato delle relazioni amorose” è “un’eccezione, la sola, anche se di prima grandezza, alle leggi del dominio maschile”, la “tregua miracolosa” in cui sono possibili la reciprocità, il perdersi l’uno nell’altro senza perdersi, uno stato perfetto di fusione, oppure “la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile” della violenza simbolica.

Ora, per tornare alla domanda iniziale – perché la violenza manifesta è così sfuggente – , si può ritenere che sia proprio il sogno d’amore, come sogno fusionale, a fare da velo alla violenza maschile, all’intreccio dell’amore col potere. I legami dipendenza che si creano nella coppia, nella famiglia, sono una minaccia per l’autonomia del singolo. Si può uccidere una donna perché troppo inglobante, oppure perché si sottrae alla presa. È quello che succede oggi: le donne che decidono di separarsi, che mostrano di non voler più essere “un corpo a disposizione di altri”, sono le più a rischio di violenza. Separandosi, la donna non colpirebbe solo un privilegio e un potere della maschilità, ma “l’amore di sé”, la fonte prima, rimasta tale anche nell’età adulta, dell’ “autoconservazione”. Il fatto che chi uccide riservi spesso a sé la stessa sorte, sembra esserne la conferma. Se l’uomo fosse solo il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di uccidere. Dobbiamo riconoscere che dietro il dominio del padre c’è la nostalgia del figlio. Sottomettendo e asservendo a sé la donna, l’uomo si è assicurato la continuità con la propria infanzia. L’uomo è marito, padre e figlio al medesimo tempo, una specie di Giano Bifronte. Si è pensato dominatore, libero, fuori casa, ma torna dipendente e figlio tra le mura domestiche.

Forse è la tenerezza del figlio che le donne continuano a spiare dietro la violenza dell’uomo, marito, padre, amante, fratello. I ruoli, le figure di genere, nella loro complementarietà strutturano rapporti di potere ma anche illusioni amorose. La possessività parla una lingua diversa nella bocca dell’uomo-padrone e dell’innamorato. Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché negli interni delle case tornano a confondersi la nostalgia del figlio, il potere di indispensabilità della donna-madre e i residui di un dominio patriarcale in declino. Come dicevo all’inizio, la convinzione che il sogno d’amore faccia da velo al riconoscimento e al rifiuto della violenza maschile, viene anche dalla mia storia personale. Essendo cresciuta in una famiglia contadina molto povera e costretta a vivere in condizioni di promiscuità, sono arrivata all’età adulta senza sapere dove fossero i confini tra amore e violenza, e come potessero le donne essere così forti, vitali, lavoratrici instancabili in campagna come in casa, e lasciarsi maltrattare e comandare dai loro uomini. Mi sono portata dietro per anni l’immagine di uomini deboli, dipendenti e tiranni, donne indispensabili per la sopravvivenza della famiglia e sottomesse. Posso dire che la “violenza assistita” ha significato, nel mio caso, ferite durature e soprattutto una visione confusa della relazione tra i sessi, la stessa che probabilmente impedisce a molte donne di denunciarla.

È vero che non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, dal momento che gli aggressori sono fidanzati, mariti, padri, ecc. E forse è l’amore che trattiene, confonde, rende così a lungo sopportabile la violenza. Scrive Antonella Picchio, economista, femminista:

“Ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza. I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli, perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e le menti delle donne. Non sono solo le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi”.

Non mi spiego altrimenti perché la “violenza manifesta”, la violenza domestica, è venuta allo scoperto per me, ma anche per il femminismo, solo una decina di anni fa. Eppure era la più vistosa, la più diffusa: un’evidenza invisibile. Questo spiegherebbe anche perché è così difficile nominare l’amore, un terreno ambiguo, dove le acque si confondono, dove sembra impossibile tracciare una linea netta di confine tra vittima e aggressore. Il capovolgimento delle parti che c’è stato all’origine è sempre in agguato. La libertà di oggi delle donne viene vissuta come una loro rivalsa, un ritorno alla potenza che l’uomo-bambino ha visto nella madre. Le donne appaiono minacciose per l’uomo, sia quando lo infantilizzano, rendendosi indispensabili, sia quando si allontano da questo ruolo. La maggiore difficoltà sembra quella di prendere distanza dalle figure intorno a cui ruotano i primi anni di vita, le funzioni che rivestono ed esercitano nell’ambito domestico: padri, madri, figli, mogli, mariti. In altre parole, si tratterebbe di avviare relazioni e processi educativi che ci allenino a passare dalle differenze di genere all’individualità del maschio e della femmina. Ciò significa anche sciogliere dipendenze, vincoli di indispensabilità, bisogni che non sono tali e fare proprio quello che Sibilla Aleramo chiamava “il fastidioso obbligo di vivere per sé”. Si tratta di ripartire dal corpo, dalla singolarità di ogni essere, per ripensare anche i legami sociali.

Quello che non si dice mai – quando si parla di abbandono degli stereotipi – è che se i ruoli e le identità di genere appaiono così precoci e resistenti a ogni critica, è perché strutturano gerarchie di potere e di valore, ma, nella loro complementarietà, sono anche il fondamento dei rapporti d’amore. L’amore, come lo definiva Aleramo, è “fusione assoluta, al di sopra di ogni differenza: è il miracolo che fa di due esseri complementari un solo essere armonioso”. E Paolo Mantegazza: “L’amore è simpatia profonda e irresistibile di nature diverse, è equilibrio di contrari, è il complemento di cose disgiunte”. L’immaginario amoroso, che è alla base delle teorie romantiche dell’amore -penso ad autori molto amati dalle donne tra ‘800 e ‘900, come Jules Michelet e Paolo Mantegazza -, ruota intorno al dualismo sessuale, il maschile e il femminile visti come le due metà di un intero: materia/spirito, corpo/mente, natura/storia, sensibilità/intelligenza, ecc. La spinta al ricongiungimento, all’unità a due è già inscritta nella complementarietà. Il sogno d’amore nasce dall’interno della visione maschile del mondo, così come il dualismo sessuale è una lacerazione, una divisione che l’uomo ha vissuto su di sé – come uscita dall’animalità – e proiettato sulla diversità dei sessi. È dall’interno di una storia che ha diviso, complementarizzato aspetti inscindibili dell’umano che nascono la nostalgia di una beatitudine originaria, la spinta alla riunificazione, il bisogno di saldare una ferita. Una composizione dei poli opposti si può dire che l’uomo l’abbia realizzata sottomettendo, dominando, appropriandosi del destino dell’altro sesso, assicurandosi la continuità con l’infanzia, la donna/madre, ma una spinta analoga è quella che agisce nella seduzione amorosa. Non è difficile capire perché la fusionalità sia stata attribuita al sentimentalismo femminile. È il corpo della donna che ha conosciuto l’unità a due della nascita e che, immaginariamente, può accogliere dentro di sé un uomo-figlio nella sessualità, nella vita amorosa adulta. Soprattutto è la donna, a cui non è stato riconosciuto a lungo un Io, una individualità propria, che può vivere solo “per” l’altro e “tramite” l’altro. L’inganno che si nasconde nella complementarietà è che viene lasciata aperta l’illusione della reciprocità, come capovolgimento continuo delle parti. Ma basta fare attenzione alle figure che si alternano in posizione dominante, per capire che sono quelle dell’origine: la madre e il figlio, l’uomo nel momento in cui diventa il fecondatore, il padre di se stesso. La ricomposizione degli opposti avviene sull’uomo. Ne sono un esempio illuminante le pagine in cui Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, parla della “mente creativa, pienamente fertile” come “mente androgina”, e cita non a caso Coleridge e Shakespeare. Anche il femminismo, che ha criticato a fondo il patriarcato, non sembra aver fatto attenzione alla misoginia che si nasconde nel “mito androgino”. È stato attaccato Freud, non Jung.

Tornando ai romantici, non è difficile capire che la reciprocità è solo apparente. Dietro ricompare immediatamente l’ordine patriarcale che subordina la donna agli interessi e al bene dell’uomo. Nel capovolgimento delle parti, se per un momento è vista come creatura debole, figlia da proteggere, subito dopo è chiamata, anche quando è diventata moglie, a “rigenerarlo” fisicamente e psicologicamente, sostenerlo e confortarlo nel suo impegno sociale, trasferire su di lui le sue energie, la sua vita stessa, fino a “diventare lui”. Nella pedagogia dell’amore di Michelet e Mantegazza, alla donna viene riconosciuta un’anima, ma è un’anima che deve nutrirsi e vivere dei pensieri degli uomini, assecondare, prevenire il loro bisogni e desideri, compenetrarsi con l’amato. L’immaginario amoroso romantico si aggira intorno alla figura della donna vista ora come bambina ora come madre, la cui potenza, le cui attrattive – sessualità e maternità – sono però del tutto asservite alla felicità dell’uomo. “La Natura privilegia l’uomo. Essa la consegna a lui debole, amorosa e dipendente nel suo continuo bisogno di essere amata e protetta. La Natura, per la sua figlia innocente, si rimette alla magnanimità dell’uomo. L’uomo, per di più, facendo leggi si è a sua volta privilegiato, si è talmente armato contro una debole creatura che la sofferenza gli consegna”. “Il compito della donna: rifare il cuore dell’uomo. Protetta, sostenuta da lui, lo sostenga d’amore. L’amore è il suo lavoro”. “L’uomo, più anziano della donna, sovrasta la sua compagna per esperienza, e l’ama quasi come una figlia (…) quando però il mestiere e la fatica hanno curvato l’uomo, la donna, sobria e seria, vero genio della casa, è amata dal lui come una madre”. “La donna entra intera nell’unione, per sempre. Vuol rinascere insieme con lui e per suo tramite. Bisogna prenderla in parola, rifarla, rinnovarla, crearla (…) Intuisce che l’amerai di più, sempre di più, se diventa tua e te stesso. Prendila dunque, in quel modo in cui si da, sopra il tuo cuore e nelle tue braccia, come un piccolo tenero bimbo”.

Ma è negli scritti di Sibilla Aleramo – in modo particolare nel Diario di una donna e Un amore insolito – che avviene lo svelamento dell’illusione d’amore come unità a due, armonioso ricongiungimento degli opposti. Dopo una “ridda di amori”, calati spudoratamente “nella mischia”, e tutti ugualmente tesi alla all’abbraccio fusionale, Sibilla si rende conto che “al centro” resta l’uomo, di cui la donna è complemento, sostegno, potere di indispensabilità all’altro. A lei si chiede, anche nell’amore adulto, una funzione materna. “Impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi all’essere amato anche senza gioia propria”. “Senso interiore di disprezzo per se stessi e considerazione esagerata per gli oppressori, amore e odio insieme…”. “Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde scende a noi questa inumana idea della immolazione materna?”. “Ero schiava della mia forza, della mia creatrice immaginazione ormai. Il mio potere era questo far trovare buona la vita… la mia forza era di conservare tale potere anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché, senza soggetto quasi”. “Non riesco a trovare la mia intima libertà, l’obbligo di esistere per me. Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Ecco l’amore è questo, l’attaccamento ad una persona alla quale ci si crede necessari, l’amore nella donna, almeno. Per otto anni ho dato tutto di me a Franco, ho compiuto questo atto sacrilego dal punto di vista della mia individualità”. “Non potevo sorbirmi per intero nella considerazione dei suoi bisogni, prevenirli, soddisfarli. Che miserabile ero io dunque se non riuscivo, una volta accettato il sacrificio della mia individualità, a dimenticare me stessa a riportare integre le mie energie su quella individualità che mi si formava a lato”.

Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna è di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno dell’Aleramo. “Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui”. E Cecchi: “Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé”.

È interessante notare come intuizioni analoghe a quelle che compaiono nei Diari di Sibilla Aleramo, scritti tra il 1940 e il 1960, ritornino nel libro di poche pagine, scritto da Andrè Gorz, Lettera a D. Storia di un amore, dedicato alla moglie Dorine e pubblicato l’anno prima che decidessero, ottantenni, di suicidarsi insieme, nel 2008. È una tenerissima dichiarazione d’amore, l’amore di una intera vita, e, al medesimo tempo un abbozzo di ‘autocoscienza’ maschile sugli aspetti contraddittori, ambivalenti della fusionalità nel rapporto di coppia. “Qui – aveva scritto Aleramo – ci sono le opere di lui: il suo libro, in cui è qualcosa di mio, ch’egli non avrebbe scritto senza il mio amore… egli è tornato alla vita, all’azione, come creatura umana dovrei essere orgogliosa e non lo sono e mi faccio piccola e piango”. “Perché – si legge nella Lettera di Gorz – sei così poco presente in quello che ho scritto, mentre la nostra unione è stata ciò che vi è di più importante nella mia vita? Perché ti ho presentato come una creatura pietosa…’che si sarebbe distrutta senza di me’, mentre tu avevi la tua cerchia di amici?”. “Sapevi, fin dall’inizio, che avresti dovuto proteggere indefinitamente il mio progetto”. “Mi lanciavo a testa bassa in una nuova impresa che mi avrebbe monopolizzato. Ma tu non mostravi né agitazione né impazienza. ‘La tua vita è scrivere. Allora scrivi!’, ripetevi. Come se la tua vocazione fosse di confortarmi nella mia”. “Tu ti sei data tutta per aiutarmi a diventare me stesso. La dedica che ho scritto nella tua copia dice: ‘A te detta Kay che, dandomi te, mi hai dato Io’”.

La cultura prodotta dal movimento delle donne, a partire dagli anni Settanta, ha portato l’attenzione sul corpo, ma non è andata oltre la sessualità e la maternità, vista solo come libertà di scelta – la questione dell’aborto -, e non per le implicazioni profonde che riguardano le figure di genere, la complementarietà che si estende anche alla coppia adulta. Ancora sembra lontana la possibilità dell’amore come incontro di due persone – pur con tutto il peso delle ‘differenze’ sessuali di cui li ha ingiustamente caricati la civiltà dell’uomo -, due individualità che non abbiamo bisogno di vivere o rinascere attraverso l’altro. E dunque ancora una volta sulla vita intima – la nascita, la sessualità, l’amore – che dobbiamo portare la nostra attenzione, per capire l’ambiguo legame che ancora la tiene legata a logiche di dominio e a rapporti di potere.


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