IFE Italia

Organizzarci?

di Gustavo Esteva
mercoledì 18 aprile 2018

Riceviamo dalla rete e volentieri pubblichiamo.

Sembra che siamo tutti d’accordo. Come ha detto più volte la portavoce del Consiglio Indigeno di Governo, manca solo che ci organizziamo. Questa deve essere la priorità. Molte e molti di noi hanno preso la cosa sul serio e lo stiamo facendo. Tuttavia… “Prima di tutto, è importante imparare a essere d’accordo. Ce ne sono molti che dicono di sì, ma in fondo non sono d’accordo. Ad altri non viene chiesta la loro opinione e altri sono d’accordo quando non è necessario che lo siano. Per questo è importante, prima di tutto, imparare a essere d’accordo”. (Bertold Brecht, Quello che dice no).

Non pare che si tratti di affiliarsi a una di quelle che erano le forme classiche di organizzazione: il sindacato, il partito, l’associazione di categoria o imprenditoriale. Per la maggior parte degli appartenenti al sindacato non c’è scelta: con il lavoro arriva anche l’affiliazione e il pagamento di quote a strutture di potere verticistiche e corrotte, di cui spesso fanno parte bande di delinquenti, come i lavoratori dell’edilizia che usano l’affiliazione alla CTM per i loro abusi, o le organizzazioni di moto-taxi che si occupano di distribuire droga. Qualcosa di simile succede nei partiti. Non ce n’è uno che non sia una struttura verticistica a cui la gente partecipa secondo norme che le vengono imposte, pur avendo facoltà di prendere iniziative. Lo stesso si può dire per le associazioni di categoria o imprenditoriali: non sono forme di auto-organizzazione. In generale, non appartengono realmente a coloro che ne fanno parte.

Non è per caso un problema di classe quello di non essere organizzati? I più poveri, in campagna o in città, non potrebbero sopravvivere senza un qualche tipo di organizzazione, anche se il loro tessuto sociale profondo, fortemente organizzato, manca spesso di etichette formali. Solo individui delle classi medie o alte possono vivere senza far parte di organizzazioni. Alcune e alcuni passano la vita intera inchiodati nella propria condizione individuale, leali a organizzazioni e istituzioni da cui traggono la propria esistenza, quelle che danno loro lavoro o rendita o che forniscono loro prodotti o servizi, il negozio, la banca, il club di golf… In genere oppongono resistenza alle forme più elementari di auto-organizzazione ed è per loro un problema mettersi d’accordo persino per amministrare il condominio, anche se, per obbiettivi molto concreti, possono facilmente costituire organizzazioni più o meno effimere. Non sembrano essere loro i destinatari principali del messaggio che invita ad organizzarsi.

Il messaggio non trova una chiara applicazione nemmeno nelle comunità indigene di Stati come quello di Oaxaca, che lungo i secoli non hanno mai smesso di avere la loro assemblea, le loro autorità, un loro sistema di governo. Non mancano di organizzazione… anche se quella che hanno soffre di varie disfunzioni e non riesce a uscire dall’ambito comunitario e municipale. Cosa vuol dire realmente organizzarsi? Si tratta ancora di costruire organizzazioni in funzione di obbiettivi economici, politici, sociali, culturali? Bisogna farlo in base alle ideologie, con ricette per il futuro? E’ necessario organizzarsi per ottenere qualcosa dal capitale o dal governo, ossia migliori stipendi o prestazioni, oppure servizi o l’accesso ai bandi? E’ questa l’organizzazione di cui abbiamo bisogno? Quella che ci consente di presentare richieste a organismi pubblici o privati?

Questa raccolta di domande retoriche cerca di delimitare il campo della nostra sfida. Organizzarci, oggi, vuol dire affrontare seriamente la necessità di ricostruire la società dalla base. Va ben oltre la costruzione di un collettivo, una cooperativa o una Ong per gli obbiettivi specifici dei loro membri, o la semplice auto-organizzazione di spazi di convivenza, come in un condominio o in occasione di una festa. Va anche oltre quell’organizzazione che porta a una mobilitazione per resistere a qualcosa o a qualcuno o per presentare richieste di qualsiasi genere. Non ha nemmeno a che fare con quello che bisognerebbe fare nelle organizzazioni classiche della società, che sta andando in mille pezzi.

Organizzarsi oggi, significa prima di tutto mantenere lo sguardo su noi stessi, a nostra misura, secondo le nostre possibilità, orizzontalmente, coscienti di ciò che possiamo o non possiamo fare da noi stessi per ricostruire la società dal basso. Significa anche sapere che questo esige, tra le altre cose, ripensare nuovamente l’orizzonte. Abbiamo perso il paese che avevamo. E’ svanita la cornice dello Stato-nazione. Gli appelli alla sovranità nazionale, che vengono lanciati in continuazione di fronte a qualsiasi provocazione, suonano sempre più vuoti. Bisogna pensare ai messicani e alle messicane, a quello che abbiamo in comune, alla forma di governo utile. Dobbiamo pensare più in là di ciò che tuttora si presenta come territorio messicano, perché un terzo di noi non vive qui… e perché questo territorio è stato messo in vendita e ha smesso di essere nostro… Ciò che è “nazionale” va ripensato.

Organizzarci, pertanto, l’invito insistente a farlo, apre una gamma estemamente ampia di domande di cui l’unica cosa che sappiamo con chiarezza è che non hanno risposte univoche. Dobbiamo porle dai diversi contesti, dai luoghi, dagli spazi, dalle condizioni in cui ognuno si trova. E lì, forse, possiamo metterci a pensare cosa fare nelle nostre “matrie”, mentre quella che chiamavamo “patria”, con tutta la sua carica patriarcale, continua a sfilacciarsi e a perdere, piano piano, qualsiasi parvenza di realtà.

https://comune-info.net/2018/04/org...


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