IFE Italia

Partiti o comitati elettorali?

di Rossana Rossanda
lunedì 5 agosto 2013

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

immagine: foto di Tina Modotti

La requisitoria contro i partiti, fatta propria da amici carissimi oltre che cittadini specchiati, come Marco Revelli, è approdata sul loro esponente più fragile, il Partito democratico, dimostrando che l’esito ne è la trasformazione del partito in semplice comitato elettorale. Che cos’era un partito se non un’idea e proposta di società, fatta propria da una parte di essa, come dice la stessa parola, e presentata a una popolazione composta da parti sociali diverse e anche opposte? È in questo senso che la Costituzione del ’48 indica nei partiti, aggregati per idee e interessi, gli strumenti tipici della democrazia, i “corpi intermedi che organizzano la riflessione fra la società e lo stato, e attraverso le elezioni ne esprimono la frazione maggioritaria”. Con un solo limite, il patto costituzionale, entro il quale e senza uscirne i partiti sono liberi di muoversi e modificarsi.

Questo impianto del pensiero politico moderno sta saltando dal 1989 in poi con la crisi dei partiti comunisti e di quel “compromesso keynesiano”, che era nato dopo il disastro economico del ’29, il sorgere dei fascismi e la seconda guerra mondiale. Ed era stato alla base delle costituzioni democratiche, come la nostra. Esso riconosceva che fra capitale e salariato gli interessi sono opposti e cercava di frenare sia una rivoluzione, come quella russa del 1917, sia una reazione come quella fascista e nazista, ponendo dei limiti alla classe più forte, quella del capitale. Era allora comune che il modo di produzione capitalistico dominante in occidente andasse corretto, l’ondata liberista riaperta da Thatcher e Reagan ha dichiarato l’unicità e l’eternità dell’assetto sociale capitalista con la famosa “Tina” e ha messo fine ai “partiti” come espressione di “parti sociali’, lasciando legittimità soltanto ai bilateralismi anglosassoni e a un modo in parte diverso di amministrare l’unica società possibile, quella capitalista. E questo ritorno a Von Hayek è apparso persuasivo agli eredi europei dei partiti comunisti, anzi, come ebbe a dire D’Alema, la “normalità” cui hanno auspicato che anche l’Italia arrivasse.

Da quel momento anche i partiti che hanno continuato a dirsi di sinistra hanno cessato di esprimere un diversa idea di società, con relativi valori e controvalori, avversari e obiettivi e il loro asse si è spostato dalla proposta di un’idea di società e di paese alla promozione delle persone che si candidano a dirigerlo. Non stupisce che il più travolto e sconvolto dal mutamento sia l’erede del Partito comunista, il Pd. Traversato da lotte furibonde tra autoproposti a tenere il presente e i pochi che vorrebbero mantenere una differenza sociale, essere insomma non dico ancora comunisti ma ancora keynesiani. I più, anche nella cosiddetta società civile, di conflitti non ne vogliono più sentir parlare e preferiscono lamentare la degenerazione morale di una politica che non può essere che quella. E non ne vogliono sapere, non per caso, della proposta di Fabrizio Barca, consistente nel ridare ai partiti soltanto il ruolo di propositori di idee di società, separandoli dalle istituzioni dello Stato, con relativi posti e prebende. Non è una proposta semplice ma non è stata presa neanche in considerazione dai candidati leader alla segreteria, e il Pd già non è che un comitato elettorale, il cui problema principale è decidere se la base degli elettori deve essere riservata a chi ne costituiva la base sociale composta dai senza mezzi di produzione (capitali, terre, miniere) oppure l’intera popolazione, capitalista o no. Il voto andrà esclusivamente alla persona del candidato e al suo modo di fare e apparire in una società appunto “normalizzata” come sopra. Un giovane come Renzi non esita a dire che del partito non gliene importa niente, se non come mezzo sul quale salire per arrivare al governo; perché di una società altra non gli cale affatto.

Non so se un partito del genere sarebbe in grado di risanare la crisi italiana, sezione della crisi mondiale in cui il liberismo ci ha messo. Questo non sta nei suoi intenti, come non mi è nota l’analisi delle cause che ne fa finora Barca. Più modestamente la sua proposta sarebbe in grado liberarci da quella sovrapposizione di bassi interessi e illegalità che deprecava Marco Revelli nell’auspicare la fine dei partiti? Forse sì, ma se ne uscirebbe ripulita la sfera della rappresentanza, l’intera formazione della struttura politica andrebbe ripensata. E sarebbe impossibile cancellare il conflitto sociale come oggi fa tutta la politica, destra e sinistra, rappresentati e non rappresentati


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