IFE Italia

Orizzonti precari e definizione di sé

di Nicoletta Gini / IFE italia
mercoledì 8 ottobre 2014

Continua la pubblicazione di testi che preparano e tematizzano il seminario internazionale di Lecce "Donne nella crisi e oltre la crisi" che si terrá l’11 e il 12 ottobre pv.

Nicoletta Gini – IFE Italia

Vorrei proporre un intervento che sappia mettere in relazione la precarietà lavorativa che la mia generazione sta vivendo con una precarietà emozionale ed esistenziale, non meno problematiche e non meno difficoltose per la novità che portano alla società occidentale. Mi astengo da fare riferimento ad analisi sociologiche o economiche, rispetto alle statistiche sulla disoccupazione femminile e giovanile cercando di concentrarmi sulla mia esperienza quotidiana perché ritengo importante che questi dati assumano i profili delle vite che rappresentano.

La precarietà economica e lavorativa esiste ed è un problema: sono una privilegiata, ho fatto l’università e sono entrata al primo concorso di dottorato che ho sostenuto, ma mi rendo benissimo conto che la situazione di ricerca disperata di un’occupazione che vedo vivere ai miei amici e alle mie amiche è solo rimandata. Il dottorato – comunque, in Italia, non parificato ad esperienza lavorativa, tenuto in uno stato ibrido tra impiego e studio, nonostante la produttività che porta alle istituzioni universitarie, attraverso borse che difficilmente permettono una vita autonoma – è di durata triennale, a cui non necessariamente (non più) segue l’assunzione all’università. Paradossalmente il grado più alto di istruzione prepara ad una disoccupazione futura, difficile da risolvere, a 30 anni, senza esperienze lavorative nel curriculum. Comunque, per tre anni c’è la certezza di circa 800 euro mensili che non sono pochi soprattutto perchè non ho in programma di formare una famiglia in tempi ravvicinati. E non ultima c’è la passione: non è questione di essere choosy come gentilemente Fornero ha appellato la mia generazione qualche tempo fa, ma è in gioco il diritto a realizzarsi in quanto persone.

È indubbio che il lavoro non possa e non debba necessariamente essere il fulcro dell’autorealizzazione: non possiamo essere ingenue e pensare che un operaio realizzi il proprio essere nella prestazione di manodopera, ma è necessario che diventi lo strumento attraverso il quale si raggiungono i mezzi per costruire spazi di felicità. La precarietà lavorativa diviene esistenziale anche sul posto di lavoro nel momento in cui la diversità di esigenze e la brevità temporale dell’impiego rendono difficile l’autorganizzazione e il riconoscimento reciproco del corpo della forza lavoro. La competitività entra nella relazione umana e laddove ci si deve imporre per mantenere il proprio posto, gli spazi di solidarietà e di riconoscimento reciproco si comprimono infinitamente. La "classe" non esiste più nella misura in cui è svuotata di senso se usata in termini di categoria sociologica; assume significato solo se gli umani stabiliscono tra loro relazioni di riconoscimento e ne prendono coscienza. Questa è un livello di precarietà che tutte abbiamo chiaro: quello dell’impossibilità di autonomia, di mancanza di continuità lavorativa e della difficoltà di autorganizzazione senza la quale i sindacati perdono di senso e di forza.

Ma c’è un altro livello, che si struttura in una parte più intima dell’umano, che non mi sento di rifiutare in toto e che investe le relazioni in modo da riformulare i modelli e i programmi tradizionali di vita. Mi piace cominciare dalla famiglia tradizionale fondata sul matrimonio e sul valore di una promessa: le promesse in un mondo che scopre la precarietà e la mutevolezza delle cose non mantengono il loro senso decisivo e garantista. Ci siamo abituati all’imprevisto, per le promesse non c’è posto. Se devo essere del tutto sincera, a me non spiace: è liberatorio non dover promettere di fare tutto quello che posso per salvaguardare una situazione che mi rende infelice. L’egoismo, nel senso buono del termine di amore di sé e del proprio benessere come fondamenti di ogni altra relazione onesta e appagante, diviene per me il punto di partenza. Nel mondo precario la famiglia etero, come istituzione e come tale rigida diviene obsoleta. Famiglie atipiche fioriscono in ogni dove e difficile è trovare una formula sociologica che le unisca sotto le stesse caratteristiche: probabilmente esistono in ogni luogo in cui si formano legami affettivi e solidali. Lo sono due anziane che si sono trovate a vivere insieme per contrastare la solitudine, due ragazzi che dividono le spese di un appartamento senza essere legati da un vincolo d’amore romantico (obsoleto, forse, pure questo), fino alla famiglia omo con figli o senza.

Con la famiglia e con il matrimonio, che poco si prestano alla flessibilità, cambia la prospettiva del rapporto con l’altro sesso o in generale della coppia. La precarietà pone diversi interrogativi sulla possibilità che trovare una persona con cui passare il resto della vita possa essere un "punto di arrivo", un inizio per "sistemarsi". Non appare più come una vita futura da iniziare: la crisi della famiglia e del matrimonio riformula il rapporto con l’amore e con il sesso, con l’impegno e con la possibilità di investire dal punto di vista emotivo. Cercare di immaginare un futuro in cui l’unico punto fermo è il proprio essere implica l’attenzione ai proprio bisogni e a fare di se stesse la protagonista della propria vita. L’innamoramento, l’avvicinarsi di un’altra persona, la possibilità di un rapporto in qualche modo stabile, oltre che non essere più una certezza – le donne sole, zitelle, proprio in quanto anomalia assumevano una carica negativa e un determinato nome per essere distinte – non è nemmeno più un obiettivo finale. Appare come un incontro, un pezzo di strada da fare insieme fino a che le esigenze, i sogni e i problemi rimangono comuni. Questo tipo di precarietà o meglio di flessibilità, questa volta vera per me, ha a mio avviso delle potenzialità non indifferenti per una generazione di donne preparate all’autodeterminazione.

Potrebbe davvero trattarsi di una rivoluzione culturale dal punto di vista della ridefinizioni dei ruoli, del rapporto con se stessi e della liberazione sessuale. Anche l’eterosessualità assume un valore identitario che non si oppone più in modo dicotomico all’omosessualità. Come ha detto poco tempo fa Emma Watson all’ONU non è più il momento di considerare i due sessi come opposizione, ma come una scala graduata di tendenze. E, sinceramente, è liberatorio pensare di avere il diritto di non definirmi necessariamente all’interno di una di queste e di trovare il mio spazio identitario nella possibilità di innamorarmi di una persona e non del suo sesso. Parlo di liberazione sessuale a proposito di un fenomeno curioso, forse poco conosciuto alle generazioni precedenti alla mia, ma che le serie tv e le sit-com cominciano a rappresentare e che secondo me meriterebbe di essere analizzato: si parla di "trombamicizie" o "amici con benefici". Si tratta di rapporti di amicizia o di conoscenza che coinvolgono la sfera sessuale senza sfociare in relazioni solide o "di amore" nel senso più tradizionale del termine, ed evitano impegni dal punto di vista emotivo o sentimentale avendo come finalità unicamente il piacere sessuale reciproco. La gelosia è ovviamente esclusa da questo tipo di rapporto come la fedeltà. Si tratta di qualcosa di molto vicino al libero amore ma non più percepito come uno stile di vita alternativo: sembra a più diritto entrato nel costume comune. Ora a me pare interessante come questo possa essere in parte – non dico che lo sia, ma può esserlo potenzialmente – il sintomo di una ridefinizione del sé da parte delle donne anche rispetto alla loro sessualità. Si rompe qualsiasi vincolo e legame del sesso con l’atto riproduttivo e si smarca addirittuara dalla tradizionale connessione con l’innamoramento. Il piacere è liberato da ogni tipo di impegno di tipo emotivo, sentimentale ma anche sociale, impegni che se per l’uomo sono per senso comune facoltativi – l’uomo ha sempre voglia, l’uomo è cacciatore ecc.. – per la donna sono stati affiancati necessariamente al sesso fino ad oggi. Il punto è che la precarietà economica si trascina una precarietà identitaria: questa è l’occasione per ridefinire l’identità di sé in rapporto con le proprie esigenze e al di fuori di ogni obbligo moralista e tradizionale che mostra la propria inadeguatezza a dispetto di ogni ideologia.

Ecco che in un’orizzonte precario dal punto di vista lavorativo ed esistenziale si apre uno spazio di possibilità di ridefinizione del sé che ha ovviamente bisogno di una contropartita che sostenga la cura e una cifra di solidarietà nella ridefinizione dei rapporti. Se è il luogo di possibilità di ridefinizione ad esempio della famiglia, è necessario trovare il modo di contrastare la competitività e l’individualismo egoista (questa volta in senso negativo) attraverso dispositivi di solidarietà. La possibilità è quella ad esempio di smarcare la vita femminile dai tradizionali ruoli di moglie e madre, o per lo meno di sottoporli ad una scelta ponderata; il rischio è quello di un cinismo che rischia di fare della competizione e di dinamiche che hanno a che fare con la dimensione economica la cifra dei rapporti umani. E qui che entra in gioco ciò che non può essere precario: un solido corpo di leggi di diritti civili, la cui formulazione deve essere in grado di abbracciare la più ampia varietà di casi, quelli cioè che la mutevolezza sociale di oggi presenta.


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