IFE Italia

Donald Trump. Se il razzismo si candida a guidare l’America.

di Mario Vargas Llosa
mercoledì 19 agosto 2015

Un utile e documentato avvertimento relativo alle elezioni presidenziali negli USA.

Fonte:http://cogitoergosum2013.blogspot.i...

Tra i miliardari, come tra gli altri comuni mortali, si può trovare di tutto: individui di grande talento, lavoratori indefessi che hanno fatto fortuna offrendo all’umanità un grande contributo, come un Bill Gates o un Warren Buffett – i quali oltre tutto devolvono buona parte dei loro immensi patrimoni a opere di beneficenza o di servizio sociale; o anche imbecilli razzisti come il signor Donald Trump.

Questo ridicolo personaggio non sa come passare il tempo e spendere i suoi milioni; perciò in questi giorni si diverte, in qualità di aspirante repubblicano alla presidenza, a insultare la comunità ispanica degli Stati Uniti: oltre cinquanta milioni di persone, che a suo dire sono un’infetta accozzaglia di ladri e stupratori. Sono le farneticazioni di un pagliaccio pieno di soldi, che nella sua campagna elettorale blatera a destra e a manca.

Ha persino insultato un ex combattente del Vietnam come il senatore McCain, torturato e rinchiuso per anni nei campi di concentramento dei Vietcong. Queste farneticazioni non conterebbero più di tanto, se non avessero toccato un nervo sensibile per l’elettorato americano, catapultando Mr. Trump ai primi posti tra i pre-candidati repubblicani. Dei quali uno solo si è azzardato a criticarlo: Jeb Bush, sposato con una messicana. Gli altri hanno fatto finta di non sentire, con un’unica eccezione: quella del senatore Ted Cruz (del Texas) che si è associato alle sue esternazioni.

Per fortuna le oscenità di Donald Trump hanno suscitato nella società civile Usa una risposta durissima. Varie emittenti tv, tra cui Univision e Televisa, hanno rotto i rapporti con lui, subito seguite dai centri commerciali Macy’s, dall’imprenditore Carlos Slim, da molte pubblicazioni e da un gran numero di artisti, attori cinematografici, cantanti, scrittori. Anche lo chef spagnolo José Andrés, notissimo negli Usa, che stava aprendo uno dei suoi ristoranti presso un albergo di Trump, si è tirato indietro in seguito alle sue frasi razziste.

È un bene o un male che il tema del razzismo, finora eluso nelle campagne politiche Usa, sia ora emerso in piena luce, tanto da giocare un ruolo di primo piano alle prossime elezioni? Secondo alcuni, al di là dei bassi motivi di vanità e superbia che hanno indotto Donald Trump a usare questo tipo di argomenti, non è un male che il tema venga discusso apertamente, anziché covare la sua putredine nell’ombra, al riparo da ogni contestazione delle statistiche taroccate cui si richiama il razzismo anti- ispanico. E forse non si sbagliano.

Ad esempio, proprio le affermazioni di Trump hanno fornito a diverse agenzie e centri di ricerca Usa l’occasione per dimostrare che a differenza di quanto andava dicendo, l’immigrazione latinoamericana non è affatto in via di sistematico aumento. Al contrario, come riferisce Andrés Oppenheimer in un suo recente articolo, secondo l’United States Census Bureau (Ufficio delcensimento degli Stati Uniti) nel corso dell’ultimo decennio il flusso migratorio dal Messico è diminuito, facendo registrare nell’ultimo anno 125.000 ingressi contro 400.000 dell’anno precedente; e la tendenza al calo è tuttora in atto.

Il problema è che il razzismo non è mai razionale, né suffragato da dati obiettivi, ma nasce da pregiudizi e sospetti, dalla paura inveterata “dell’altro” – di chi è diverso per il colore della pelle o parla un’altra lingua, venera altri dei, pratica altri costumi. Per questo è tanto difficile combatterlo con le idee, facendo appello al buon senso. Tutte le società, senza eccezione alcuna, covano nel proprio seno questi torvi sentimenti contro i quali la cultura è in genere inefficace, se non impotente – anche se spesso li reprime, seppellendoli nell’inconscio collettivo. Ma non arriva mai a farli scomparire del tutto, tanto che segnatamente nei periodi di confusione e di crisi affiorano alla superficie, attizzati dalla demagogia dei politici e dal fanatismo religioso. Si generano così i capri espiatori, grazie ai quali vasti settori della popolazione, a volte addirittura maggioritari, si esonerano dalle proprie responsabilità, scaricando di volta in volta la colpa dei propri mali su”l’ebreo”, su”l’arabo”, sul “negro” o sul “messicano” di turno. Smuovere quelle acque putride nei bassifondi dell’irrazionalità è sommamente pericoloso, poiché da sempre il razzismo è fonte di violenze atroci, e può arrivare a distruggere la convivenza pacifica, a minare le fondamenta stesse dei diritti umani e della libertà.

Molto probabilmente, malgrado il basso livello culturale che affiora nelle sue parole come nelle sue creazioni – a incominciare dall’orrido kitsch dei suoi grattacieli – il signor Donald Trump si rende conto dell’assoluta infondatezza dei suoi insulti ai cittadini Usa di origine ispanica o latina; e non ignora quanto possano essere dannosi, in quello che è sempre stato e continua ad essere un Paese di immigrati. Perciò nei suoi discorsi dà prova di essere frivolo e irresponsabile.

La capacità di far soldi, come quella di diventare un campione di scacchi o un asso del pallone, non comporta nient’altro che un’abilità molto specifica in un dato settore. Uno può diventare miliardario pur rimanendo per tutto il resto un individuo pervicacemente incolto, e uno sciocco irrecuperabile. Ora, tutto sembra indicare che il signor Trump appartenga a questa deplorevole variante della sua specie.

E tuttavia sarebbe ingiusto concludere, come ha fatto qualcuno in seguito alle intemperanze verbali di quel magnate dell’edilizia, che il razzismo e gli altri pregiudizi discriminatori e settari costituiscano l’essenza stessa del capitalismo, i suoi prodotti più raffinati e inevitabili. Non è così. E gli Stati Uniti sono la prova migliore del fatto che una società multirazziale, multiculturale e multireligiosa possa esistere, svilupparsi e progredire a un ritmo sostenuto, tanto da creare le opportunità per attirare alle sue rive una miriade di uomini e donne provenienti da ogni parte del pianeta.

Se nel nostro tempo gli Stati Uniti hanno conquistato il loro primato, è grazie a questa povera gente, disperata per l’assenza di opportunità di lavoro e di vita nei rispettivi Paesi, che sudando sangue e faticando senza tregua per crearsi un futuro ha contribuito al tempo stesso a costruire un grande Paese – la prima potenza multiculturale della storia moderna.

Gli ispanici, al pari degli irlandesi, scandinavi, tedeschi, francesi, spagnoli, italiani, giapponesi, indiani, ebrei o arabi, hanno contribuito in maniera molto efficace a fare degli Stati Uniti d’America quello che sono. Se oggi, in qualunque nazione del mondo, è comunque assurdo invocare una società pura e immacolata, esente da ogni commistione, a maggior ragione lo è negli Usa: un Paese che grazie alla flessibilità di un sistema aperto a chiunque abbia voglia e capacità di lavorare si è incessantemente rinnovato, assimilando e integrando tanta gente proveniente dai quattro punti cardinali. In questo senso, gli Stati Uniti sono la società di punta del nostro tempo, l’esempio da seguire per tutti i Paesi che presto o tardi dovranno aprire le loro frontiere a tutti, se vogliono continuare ad essere moderni o diventarlo, in un mondo che avanza nel segno della globalizzazione. E il fatto che in esso possa esistere anche un Donald Trump non deve farci dimenticare questa stimolante verità.

(traduzione di Elisabetta Horvat)


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