IFE Italia

Pensare in modo diverso la politica

di Lea Melandri
martedì 13 dicembre 2016

Elisa Giomi ha giustamente criticato sulle sue pagine facebook il titolo della Stampa riguardante il nuovo film della Disney: “Lei è una eroina, lui un bamboccione. Con ‘Oceania’ il cartone di Natale diventa femminista”:

“Si rafforza così l’idea (sbagliata) secondo cui le femministe vorrebbero un mondo di donne forti e uomini deboli. Ci piacerebbe, invece, trasmettere la convinzione che – a prescindere dal proprio genere – per dimostrarsi forti non serve avere accanto una persona più debole, logica che alimenta la cultura della violenza e del bullismo e che NON appartiene al femminismo”.

Sono d’accordo con Elisa: il femminismo ha significato la critica a tutte le forme più o meno violente, più o meno manifeste di potere. Scambiare la libertà che le donne vanno faticosamente conquistando con la volontà di sopraffazione del maschio appartiene ancora una volta all’immaginario maschile. Riproporlo è profondamente diseducativo, ma non si può neanche ignorare l’ambigua seduzione che esercitano sulle donne stesse le figure di un femminile eroico, maternamente o virilmente salvifico.

La fantasia del “capovolgimento” del potere tra i sessi ha una radicamento antico, che andrebbe indagato più attentamente, e che ne spiega la durata.

Qualche riflessione.

Si può ipotizzare che all’origine del processo di differenziazione che ha visto l’uomo riservare a se stesso il versante della storia (pensiero, linguaggio, decisionalità politica) e alla donna quello della natura, dell’animalità, del supporto indispensabile al suo destino pubblico, ci sia, oltre e più ancora che la capacità generativa femminile – rispetto alla quale l’uomo si è trovato in posizione di marginalità, invidia, bisogno di rivalsa -, l’esperienza della nascita dal corpo della donna, un vissuto di inermità, dipendenza, sopravvalutazione della potenza materna da parte dell’uomo figlio.

Come dice candidamente Rousseau, nella guerra tra i sessi, è stato il più debole ad avere la meglio sul più forte.

Il dominio maschile si impone come rivalsa, controllo, sfruttamento della donna-madre, che verrà così a trovarsi al centro di una evidente contraddizione: esaltazione immaginativa, per dirla con le parole di Virginia Woolf, e insignificanza storica.

Tradotto in termini più attuali: assistiamo oggi da un lato al riconoscimento, quanto meno verbale, delle “doti femminili” come risorsa preziosa per l’economia e la politica, e dall’altro a quello che Marina Piazza chiama, documentandolo ampiamente in un libro omonimo, “lo scacco della maternità”.

Questa aporia, che ha a che fare con l’origine del rapporto tra i sessi, con la costruzione delle identità di genere, e soprattutto con la collocazione del materno al centro della “differenza femminile”, della sua presunta ‘naturalità’, non poteva non emergere in quei movimenti delle donne che hanno pensato di avvalersi della figura reale o simbolica della madre per emanciparsi.

Uso volutamente la parola emancipazione per indicare sia l’emancipazionismo tra Ottocento e Novecento, sia le teorie filosofiche del “pensiero della differenza” degli anni Ottanta e Novanta, sia quella che oggi viene definita la “femminilizzazione” dello spazio pubblico, considerata anche da alcuni gruppi femministi un’opportunità per acquisire potere e portare cambiamenti significativi al mondo del lavoro e della politica.

Riservo invece la parola liberazione a quello scarto, o discontinuità, che ha prodotto nella coscienza storica il femminismo degli anni Settanta, in cui è stata proprio l’identificazione della donna con la madre, della sessualità con la procreazione, a essere fatta oggetto di critica e di cambiamento.

Ci si accorge in sostanza che l’espropriazione più profonda che le donne hanno subìto riguarda, più ancora che il loro ruolo di genitrici, la loro individualità, il loro essere, prima che mogli e madri, delle persone. È solo nel momento in cui le donne riconoscono e si legittimano una sessualità propria che la maternità da destino può diventare una scelta.

Negli anni Settanta quindi si profila un orizzonte interpretativo nuovo, inedito, rivoluzionario rispetto all’esistente: al posto della coppia originaria madre e figlio – quella su cui si può ipotizzare che si sia costruita la visione dualistica del mondo che è arrivata fino a noi – viene messa la relazione tra individui di un sesso e dell’altro; si comincia a distinguere la femminilità e la maschilità come costruzioni sociali, culturali, immaginarie, dall’essere reale dell’uomo e della donna. Si tratta di uno spostamento radicale di prospettiva che si tradurrà nelle pratiche anomale dell’“autocoscienza” e della “pratica dell’inconscio”: una riflessione collettiva sui vissuti personali, l’analisi della violenza che passa invisibile attraverso l’incorporazione di modelli di potere imposti, la lenta modificazione di sé come presupposto per la modificazione del mondo.

L’autocoscienza, come scrive Maria Luisa Boccia nel suo libro "La differenza politica" è la prima forma di un “pensare differentemente la politica”, vuol dire portare l’attenzione sulla soggettività di ognuna, attraverso la relazione con le altre donne, intendere la libertà come processo di liberazione (presa di coscienza) dalla complicità profonda con il pensiero maschile.

“Una donna deve innanzitutto logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata. All’identità femminile, prodotta dall’uomo, subentra ‘un io non conforme’ alla femminilità ed è da questo movimento della singolarità in relazione che prende forma la soggettività sessuata”.

È da questa critica alla femminilità tradizionalmente intesa che parte la presa di distanza del movimento degli anni Settanta dall’emancipazionismo del primo Novecento.


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