IFE Italia

I cocci del soffitto di cristallo

di Jennifer Guerra
venerdì 18 giugno 2021

"(...) Come recitava un cartello visto in una manifestazione in Argentina, "per ogni soffitto di cristallo rotto, c’è una donna povera e immigrata che deve pulire i cocci"

Fonte:

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el 1986 usciva sul Wall Street Journal un articolo a firma di Carol Hymowitz e Tim Schellhardt intitolato The Glass Ceiling: Why Women Can’t Seem to Break The Invisible Barrier That Blocks Them From the Top Jobs (Il soffitto di cristallo: perché le donne sembrano non rompere la barriera invisibile che impedisce loro di raggiungere le cariche più alte). Nonostante la metafora del soffitto di cristallo fosse stata inventata due anni prima dall’editrice britannica Gay Bryant sulle pagine di Working Woman, è l’articolo del Wall Street Journal a essere considerato il vero artefice della popolarità di questa espressione, che ancora oggi viene utilizzata per indicare gli ostacoli che le donne incontrano nel raggiungere le posizioni apicali nel lavoro e nella politica.

Negli ultimi anni, il tema è tornato alla ribalta, anche a causa di alcuni importanti avvenimenti. La rottura «del più alto e del più resistente» dei soffitti – quello della presidenza statunitense – è stato il cavallo di battaglia di Hillary Clinton da ben prima che ufficializzasse la sua candidatura alle elezioni del 2016. Con una Ted Talk del 2010 e il libro del 2013 Lean in (in italiano, Facciamoci avanti, Mondadori 2013), la Coo (Chief operating officer) di Facebook Sheryl Sandberg è diventata il simbolo della battaglia contro il soffitto di cristallo che, scrive Forbes, con la sua importante posizione dentro Facebook Sandberg non avrebbe soltanto «rotto», ma proprio «preso ad accettate». Il successo dei libri e discorsi motivazionali della manager è diventato tale che non di rado si sente parlare di lean in feminism per indicare tutto quel mondo di networking aziendale, lobby e Fondazioni che lavorano per l’empowerment femminile nel mercato del lavoro. Un’espressione efficace anche sul piano simbolico: checché ne dica Forbes, Sandberg sembra più animata dalla gentilezza di chi bussa alla porta prima di entrare che dalla violenza di chi sfonda un soffitto.

Nel 1986, anno dell’articolo del Wall Street Journal, Reagan era al suo secondo mandato e in procinto di bombardare la Libia, mentre in Gran Bretagna si portava a compimento il famoso «Big Bang» della Borsa di Londra, il capolavoro della privatizzazione thatcheriana. Si era nel pieno della controrivoluzione neoliberale, ma anche di una profonda crisi d’identità del movimento femminista. Dopo il successo della seconda ondata del movimento negli anni Sessanta e Settanta, costellato da riconoscimenti importanti nel campo dei diritti civili, le lotte delle donne sembravano affievolirsi in tutto il mondo. In Italia, per esempio, si considera il 1981 con il referendum sull’aborto l’ultimo afflato della stagione femminista. Negli anni del riflusso, il femminismo non sparì, ma diventò «diffuso», per usare un’espressione di Anna Rita Calabrò e Marta Grasso, tendendo «a mantenersi nei limiti della sfera soggettiva della donna che ne è toccata», senza riuscire a incidere sulla società e ancor meno sulle agende politiche.

Più in generale, il decennio degli Ottanta rappresenta un vuoto nella storiografia del femminismo. Nonostante la sua presenza non si fosse affatto eclissata, ma anzi fosse entrata nelle maglie della cultura attraverso l’apertura delle Case delle donne, dei centri di documentazione e ricerca e di iniziative accademiche di grande importanza, si tende a considerare questo periodo come un raccordo tra la seconda e la terza ondata, che comincia «ufficialmente» nel 1991. Al di là dei limiti della cosiddetta teoria delle ondate, gli anni Ottanta sono senz’altro meno rappresentativi sul piano delle lotte ma non per questo meno interessanti. Anzi, in un certo senso si possono considerare il periodo più decisivo per il futuro del femminismo proprio per ciò che stava accadendo al di fuori del movimento delle donne.

Un primo momento di svolta fu il 1975 quando, su impulso della diffusione crescente dei movimenti femministi in tutto l’Occidente, le Nazioni unite proclamarono l’«anno delle donne» e organizzarono la prima conferenza internazionale delle donne a Città del Messico. Le 133 delegazioni degli stati membri, eccezionalmente costituite da una maggioranza di donne, individuarono tre obiettivi da raggiungere entro dieci anni: l’eliminazione delle discriminazioni di genere in ogni ambito della vita sociale, la partecipazione delle donne allo sviluppo e un loro maggior contributo nel rafforzamento della pace mondiale. Gli effetti immediati della conferenza furono la fondazione dell’Instraw, l’Istituto internazionale delle Nazioni unite per la ricerca e la formazione del progresso delle donne, e dell’Unifem, il Fondo di sviluppo Onu per le donne. A partire da quella data, anche altre importanti istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale cominciarono a dotarsi di strumenti per raggiungere la parità di genere, sia al proprio interno che come obiettivo strategico.

La conferenza del 1975 è molto importante perché se da un lato sancì la legittimità delle rivendicazioni femministe, contribuì anche a crearne una versione accettabile. Come ha ricostruito l’etnografa Kristen Ghodsee, gli Stati uniti erano preoccupati che la Conferenza si trasformasse per l’Unione sovietica, rappresentata dalla cosmonauta Valentina Tereshkova, in un’occasione per votare risoluzioni anticapitaliste. D’altronde, lo stesso governo statunitense considerava il femminismo, persino nella versione liberal della National Organization of Women, un movimento socialista. Per questo l’obiettivo della Conferenza per gli Usa diventò quello di separare le questioni femminili da quelle economiche e sociali, posizione predominante invece nel blocco sovietico, che considerava la Conferenza come un’occasione per le donne di prendere finalmente parola sui grandi problemi politici e non per affrontare la questione dei loro diritti. Fatto sta che dal 1975 in poi, l’opinione pubblica statunitense assunse una postura sempre più favorevole nei confronti del femminismo, tanto che il Time quell’anno scelse di celebrare le Women of the year anziché il consueto Man of the year. Chiaramente, questa svolta non era motivata dal desiderio di riconoscere politicamente il femminismo, che restava un movimento di radicale trasformazione dell’esistente, ma di orientarlo verso posizioni più in linea con il capitalismo, anche in funzione antisovietica. Secondo Ghodsee, la conferenza di Pechino del 1995 – la prima dopo il crollo dell’Unione sovietica – sancì la definitiva vittoria della visione statunitense del femminismo, trattando in maniera quasi esclusiva i problemi della violenza di genere, del traffico di esseri umani e delle molestie sessuali.

Negli stessi anni, le Nazioni unite si impegnavano per adottare un approccio di sviluppo noto come Wid, Women in Development, elaborato dall’Università di Harvard per la Banca mondiale. Questo approccio puntava a dotare le donne nei paesi del Sud del mondo, africani in particolare, di un proprio reddito che generasse una più ampia circolazione di capitali. Insistendo sull’imprenditoria femminile e in generale sulla partecipazione delle donne ai processi economici e decisionali, il Wid ignorava tutte le cause strutturali delle diseguaglianze di genere e di classe, nonché la loro intersezionalità. Nel frattempo in Occidente, con il massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro dovuto anche alla terziarizzazione dell’economia, si poneva con sempre maggiore insistenza il problema della leadership femminile. Secondo l’Harvard Business Review, dal 1980 al 2010 negli Stati uniti c’è stato un incremento di 4,5 milioni di posti manageriali, di cui 2,6 occupati da donne (per il 40% bianche). È pur vero che la maggior parte di questi posti sono stati ottenuti in settori tradizionalmente femminili, o che si sono consolidati come tali: marketing, finanza, risorse umane, educazione, sanità. Il numero delle donne con posizione di Ceo o nella pubblica amministrazione è aumentato solo dell’1% nel corso di trent’anni. Questi risultati non sono frutto soltanto del caso o del corso della storia, ma anche di strategie e politiche specifiche che miravano proprio alla rottura del famoso tetto di cristallo. Dal 1991 al 1996 il governo degli Stati uniti creò un’apposita Glass Ceiling Commission con il compito di monitorare il fenomeno e tentare di superarlo. I vari report prodotti dalla commissione evidenziavano come l’assenza di donne e minoranze nei ruoli dirigenziali fosse uno «spreco di capitale umano» e come la loro presenza fosse invece un «solido investimento» per le aziende. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza un importante cambiamento ideologico in quello che viene definito «femminismo egemonico». Secondo Nancy Fraser il femminismo è finito per diventare affine al «nuovo spirito del capitalismo», come scrive nel suo famoso saggio Fortune del femminismo (Ombre Corte 2014). Per la filosofa, questo processo di legittimazione ha colpito tutti gli assetti del femminismo degli anni Sessanta e Settanta: per prima cosa, la priorità economica è passata «dalla redistribuzione al riconoscimento»; lo spirito informale del neoliberismo ha poi fatto crollare la figura del padrone, sia nella fabbrica che nella casa, rendendo non più necessaria la critica all’androcentrismo che animava il femminismo di seconda ondata. Infine, il movimento ha cercato di adottare una prospettiva globale attraverso le istituzioni internazionali che non sono però organismi che operano dal basso, ma gruppi di interesse in cui lavora personale specializzato e altamente qualificato.

La disorganizzazione insita nell’assetto neoliberista ha fatto il resto. Per Fraser, «il sogno di emancipazione delle donne è imbrigliato nel motore dell’accumulazione capitalista» a ogni livello della catena sociale, dalle donne di classe media decise a rompere il soffitto di cristallo a quelle di classe povera, desiderose di liberarsi dall’autorità tradizionale. Forti di una legittimazione politica e soprattutto morale, le istanze femministe si sono fatte largo nei luoghi di potere. L’empowerment da pratica di self help femminista è diventato uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite. Le femocrats, le burocrate femministe, hanno ottenuto importanti posizioni all’interno delle istituzioni internazionali, promuovendo agende per la parità e l’uguaglianza. Tutte cose che di per sé non sono un male: non si può negare che la marginalizzazione delle questioni di genere nei programmi politici sia un problema, così come la mancata partecipazione delle donne alla società civile e alla vita pubblica in generale.

Ma queste istanze possono diventare dannose nel momento in cui si crede nel pensiero magico che basti una «donna al potere» a risolvere problemi che non sono individuali, ma strutturali. Anzi, a ben guardare, questa forma mentis si è consolidata in un momento storico in cui c’era proprio una donna, Margaret Thatcher, a rappresentare una delle più alte figure di potere nel panorama mondiale. Eppure, Thatcher non ha fatto nulla per le donne del suo paese, anche se oggi qualcuno la ricorda come un’icona femminista per il semplice fatto di essere stata la prima premier del Regno Unito e di aver esercitato un potere insperato per una donna prima di allora.

Questa sorta di risignificazione è avvenuta perché l’ideologia del femminismo egemonico insiste sulla realizzazione personale che, non a caso, è anche il cuore dell’ideologia neoliberista. Avendo spostato l’attenzione delle rivendicazioni da una liberazione collettiva a una libertà individuale, che si fa spesso coincidere con un alto posizionamento all’interno della scala sociale, il messaggio femminista si è senz’altro democraticizzato, ma allo stesso tempo ha perso la sua conflittualità. È riuscito persino a far sembrare antiquata la metafora dello sfondamento del tetto di cristallo: è un femminismo che si limita ad accostarsi all’esistente, come suggerisce il fortunato libro di Sandberg. Chiaramente, il grande assente di questo femminismo convinto che l’importante sia «farsi avanti» – pur con tutte le difficoltà dettate dal genere – è la questione di classe.

Già Evelyn Reed ne La liberazione della donna (Meltemi 1969) si chiedeva se una donna povera avesse più in comune con un uomo povero o con la moglie di un uomo ricco che compartecipava alla difesa della proprietà privata e dei suoi privilegi. La risposta di Reed era categorica: finché il movimento femminista si convincerà che il nemico è il maschio e non il sistema capitalistico, fallirà. Oggi si è compiuto il passo successivo della semplificazione, gli uomini sono accettati nei movimenti femministi e si è perso l’interesse non tanto nell’individuazione di un nemico, quanto più nella ricerca di una causa della diseguaglianza. Si fa riferimento a un generico patriarcato a cui si fatica a dare un volto definito, ma che è facile da collocare in una visione del mondo dettata dalla verticalità, in cui se c’è una direzione in cui andare è quella verso l’alto. Questo indefinito patriarcato ci tarpa le ali nella nostra ascesa verso le posizioni apicali, diventando l’incarnazione del soffitto di cristallo. Va da sé che l’unico modo per sconfiggerlo è cercare di raggiungere il suo stesso posizionamento.

L’obiettivo di un femminismo incapace di considerare le radici economiche della diseguaglianza, scrivono le autrici di Femminismo per il 99% (Laterza 2019) Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, sono le «pari opportunità di dominio». Non si lotta per migliorare le condizioni di partenza, ma quelle di arrivo, senza mettere mai davvero in discussione gli assi portanti del potere, a eccezione del genere di chi lo detiene.

Il capitalismo è riuscito a mettere le femministe nella scomoda posizione di dover scegliere tra il compromesso e la lotta senza quartiere, annacquando sia una soluzione che l’altra e alimentando le divisioni all’interno del movimento stesso. Se da un lato c’è sempre maggiore diffidenza nei confronti del cosiddetto pinkwashing, l’uso strumentale del femminismo e delle lotte Lgbtiq da parte di brand e aziende, una simile presa di consapevolezza per il momento non sembra riguardare la questione del potere nel mondo aziendale, finanziario e ancor meno politico. La sostanziale assenza delle donne da questi settori in passato non basta però a giustificare l’entusiasmo mediatico che creano le «donne al potere» oggi, specialmente quando il genere o un superficiale impegno per «i diritti delle donne» vengono usati come schermo per giustificarsi dalle critiche o scrollarsi di dosso responsabilità politiche. Le soggettività marginalizzate non hanno bisogno di risarcimenti compensatori, ma di cambiamenti strutturali capaci di incidere sulla loro quotidianità, creando un cambiamento reale. Come recitava un cartello visto in una manifestazione in Argentina, «per ogni soffitto di cristallo rotto, c’è una donna povera e immigrata che deve pulire i cocci».


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