Quando iniziai nel 1984 a lavorare nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze eravamo in 380: lo testimonia la vecchia rastrelliera numerata dei cartellini d’ingresso d’epoca pre-informatica, tristemente ancora appesa in un corridoio del sottosuolo.
Oggi siamo in 180, nella biblioteca più grande e importante d’Italia per le sue funzioni storiche e scientifiche di archivio nazionale del libro e di agenzia bibliografica nazionale.
Il dato è emblematico della condizione di svalutazione e di vero e proprio svuotamento in cui il berlusconismo ha relegato gli istituti pubblici della cultura e della ricerca: scuola, università, musei, teatri e, appunto, biblioteche.
Proprio il “pubblico” è il vero problema: nel momento in cui lo si è assunto ed esaltato nell’unico senso di consumatore d’immagine e di oggetto di sondaggi, se ne perde e se ne distrugge il significato di “riferito a tutti”, d’interesse e utilità comune per tutte le persone.
L’unico valore riconosciuto e perseguito è quello di scambio, mentre il valore d’uso in cui la ricerca e la cultura si nutrono e possono crescere diventa sempre più un alieno nel pianeta del mercato.
Così sempre più “aliene” ci sentiamo anche noi operatrici del settore, visto che siamo in gran maggioranza donne. Altamente competenti e spesso appassionate di svolgere un servizio che fornisce gli strumenti del sapere, constatandone con malefica inversa proporzionalità la non comprensione (“la cultura non si mangia”) e la svalutazione (“statali fannulloni”), proprio nel paese che ha la maggior concentrazione al mondo di patrimonio artistico e culturale.
Tagli sempre più pesanti, particolarmente negli ultimi anni, stanno praticamente svuotando gli istituti e le strutture periferiche ma anche centrali del Ministero dei beni e attività culturali, che peraltro non ha mai brillato, ma oggi siamo al fondo del barile.
Non ci sono neanche più le risorse per esternalizzare alcuni servizi, e quindi il precariato giovanile che negli ultimi 15-20 anni si era formato anche nel mondo bibliotecario svela la faccia dura della disoccupazione.
Un tragico spreco di energie e competenze, che comunque avevano iniziato a passare dal personale stabile più anziano a quello più giovane seppur precario, va oggi delineandosi nella rottura del naturale e indispensabile passaggio di saperi esperti e di memoria fra le generazioni del lavoro culturale pubblico.
E non c’è futuro senza memoria.
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