La saudita Madawi Al-Rasheed, docente di antropologia religiosa al King’s College di Londra, non condivide l’entusiasmo per le notizie che giungono dalla madrepatria. Da profonda conoscitrice di storia femminile del suo Paese ritiene che l’annunciata riforma non affronti i bisogni nazionali ma sia «uno specchietto per le allodole».
Le saudite potranno accedere al Consiglio della Shura e alle elezioni. Non è forse il primo fiore della primavera saudita?
«Dato quanto sta accadendo nel mondo arabo è una concessione minima e tardiva. La regione è scossa da un terremoto eccezionale e la monarchia saudita è fortemente minacciata. Il discorso del re è un diversivo tattico: il disperato tentativo di distogliere l’attenzione mediatica internazionale dalla repressione in corso usando il tema delle donne».
Obiettivamente però, le donne saudite non se la passano benissimo. Non è così?
«Certo, ma stiamo parlando di un Paese dove nel 2011 esiste ancora una monarchia assoluta. Le prossime elezioni municipali, in calendario tra pochi giorni, dovevano tenersi nel 2009 quando, senza ragione, il governo le cancellò. In questo contesto le donne diventano il pretesto utile a far dimenticare i problemi che riguardano tutta la popolazione indipendentemente dai sessi. C’è una leadership vecchia e senza ricambio, ci sono giovani in balia della disoccupazione, non esistono elezioni parlamentari: ecco i motivi per cui, secondo Amnesty International, da mesi le carceri saudite si riempiono di dissidenti. La gente vuole una monarchia costituzionale, protesta come in Egitto e finisce automaticamente in prigione, ma questo fa meno notizia delle donne».
Perché Riad giustifica la discriminazione femminile con il rigore islamico mentre altri Paesi musulmani come il Pakistan hanno avuto donne premier?
«Il Corano non c’entra. Il governo saudita si è servito finora della secondarietà della donna per provare ai conservatori di casa propria e al mondo islamico quanto pio fosse, ma nel momento in cui altri Paesi musulmani, dalla Tunisia alla Turchia, dimostrano la possibile svolta modernista deve aggiustare il tiro. Così, dopo aver appaltato ai fanatici la questione femminile per controllare in cambio la popolazione, la monarchia risponde adesso alle richieste della piazza attraverso l’apertura alle donne. Ma dove non ci sono elezioni parlamentari può bastare un pugno di deputate designate dal re e verosimilmente parenti di burocrati e tecnocrati? Non aiuta l’agenda riformista, senza contare che le donne continueranno ad aver bisogno del tutore per andare dal medico».
L’emancipazione femminile è stata uno dei leitmotiv di tutta la primavera araba. Non crede sia la cifra della democrazia?
«Nel mondo arabo le donne sono l’anello debole, non sfidano le dittature. Pensate alla Libia di Gheddafi dove le donne contavano, alle ministre dei Paesi del Golfo come il Bahrein, alla Siria di Assad e della sua consorte. Sono forse regimi meno autoritari perché si presentano in pubblico con qualche rappresentante femminile? No. Il regno saudita contrasta la protesta internadistribuendo sussidi, finché la crisi non lo travolgerà, alimentando il settarismo sunniti-sciiti e ora sbandierando l’apertura alle donne. Tutto per provare che senza gradualità riformista si rischia il caos. Ma dovremmo guardare alMaroccoper capire che un codice di famiglia serio vale più di un posto garantito in Parlamento laddove il Parlamento non è autonomo».
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