Ai figli si dà il cognome paterno. Ci si è abituati così. E la nostra storia. E la nostra tradizione. Perché cambiare? Un padre non può mica rinunciare alla trasmissione del proprio patronimico! E il dramma del nostro paese, incapace di prendere sul serio non solo l’uguaglianza tra gli uomini e le donne, ma anche l’autonomia e la libertà individuale.
Ce lo ha ricordato ieri la Corte Europea dei diritti umani: negando la possibilità a una coppia di dare alla figlia il cognome materno, l’Italia non rispetterebbe il principio di uguaglianza e discriminerebbe le donne; i genitori dovrebbero sempre avere la libertà di dare ai figli il cognome che vogliono: quello paterno, quello materno, oppure anche entrambi.
In Parlamento, sono anni che si accumulano proposte di leggi che vanno in questa direzione. Quando si parla della famiglia, però, va a finire sempre nello stesso modo: prima grandi dibattiti e grandi speranze; poi grandi polemiche; infine tutto si blocca. Le proposte di legge non vengono calendarizzate, oppure si arenano in qualche commissione, sepolte da mille altri progetti considerati più urgenti. Come nel caso del divorzio breve, delle unioni civili, dell’inseminazione eterologa, ecc. Ossia ogni- qualvolta si parli di sessualità o di procreazione. Come se dietro l’idea di promuovere
l’uguaglianza e le pari opportunità dei cittadini — indipendentemente dal sesso, dal genere e dall’orientamento sessuale — ci fosse per forza la volontà di rimettere in discussione l’ordine, il valore della famiglia, o anche il «nome del padre”, per utilizzare la celebre formula di Jacques Lacan. Mentre in realtà si tratterebbe solo di scrivere leggi adeguate alle trasformazioni e all’evoluzione della società. Senza più trincerarsi dietro concezioni arcaiche dei rapporti di coppia. Senza più promuovere una visione patriarcale delle famiglie. Perché d’altronde dovrebbe essere sempre e solo il padre a trasmettere il nome della propria famiglia e una madre dovrebbe accontentarsi di aggiungere il proprio cognome accanto a quello paterno?
All’epoca in cui tutti sembrano celebrare il trionfo dell’uguaglianza, l’unica plausibile risposta a questo tipo di domande è l’abitudine. E per abitudine che ancora tante donne considerano normale che i figli portino il cognome del padre. E per abitudine che tanti uomini continuano a pensare che, trasmettendo il nome, trasmettono poi ai figli anche la propria storia e i propri valori.
E per abitudine che ci si adatta e si va avanti, quella stessa abitudine che per Etienne de La Boétie spiegava perché gli esseri umani, per natura liberi e uguali, accettassero poi forme di servitù volontaria. Ecco perché abbiamo bisogno di leggi capaci, grazie anche al proprio valore simbolico, di scardinare queste abitudini, dando strumenti adeguati a tutti per poi costruire delle società in
cui l’uguaglianza e le pari opportunità non siano semplici “significanti” privi di “significato”.
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