Tutto si svolge come in un combattimento al Colosseo. Prevale il linguaggio volgare di chi “non fa prigionieri”. Le manifestazioni dei Forconi non sono troppo diverse da quanto avviene nell’emiciclo di Montecitorio
Nella democrazia post-partitica il pubblico è una come un occhio senza corpo, informe e gestito da chi sa meglio attivare le emozioni, fare audience. L’arte del parlare in pubblico cambia di conseguenza, non solo nella sfera delle opinioni ma anche nelle istituzioni, intrappolandole nella logica teatrale. Lo stile che ha successo non è il dialogo tra cittadini sulle questioni di loro interesse, ma la dichiarazione ad effetto, l’espressione immediata e diretta del sentire soggettivo in reazione agli eventi esposti al pubblico occhio, non per informarlo ma per tenerlo dalla propria parte. Il pubblico come arte del nascondimento per mezzo delle immagini: un paradosso del nostro tempo di “democrazia in diretta”. È il giudizio estetico che governa la scena invece di quello politico: la centralità dei simboli sui programmi, della figura del leader sul collettivo del partito, delle qualità estetiche su quelle pratiche (la sessualità invece della prudenza, l’aspetto fisico invece della competenza). Il giudizio come questione di gusto intercetta e codifica luoghi comuni e pregiudizi diffusi, che entrato prepotenti nel linguaggio pubblico colonizzandolo e deturpandolo.
I programmi televisivi sono le aule scolastiche nelle quali si è formata questa politica plebea. Anche quando dovrebbero avere lo scopo di discutere dei problemi d’attualità, sono condotti come corride, più interessati a registrare largo ascolto che a costruire opinione ragionata – anche perché hanno col tempo abituato gli spettatori a desiderare quel che gli propinano: lo scontro e la demolizione dell’avversario. Del resto, il giudizio veloce sulla persona fa più audience della discussione sulle idee (“Fassina, chi?” si è dimostrato uno schema di giudizio di grande efficacia). Uomini politici e dello spettacolo (spesso identificati concretamente come nel caso di Grillo) coltivano il loro pubblico grazie all’uso studiato di un linguaggio volgare che non fa prigionieri. E così, l’avversario politico diventa un bersaglio di dileggio, mentre l’amico di partito o di blog un alleato gregario. La sfera pubblica come il Colosseo, dentro e fuori delle istituzioni. Le manifestazioni dei forconi non sono diverse nello stile dalle baruffe che animano l’emiciclo del Parlamento.
La politica plebea ha bisogno dell’audience per alimentarsi. Cerca negli spettatori il consenso complice e lo trova: perché l’offesa urlata sa di cadere in un terreno fertile, in un pubblico che la condivide e la ripete. Le offese alle donne e a Laura Boldrini gridate dai parlamentari del M5S sono rappresentative di luoghi comuni diffusi: non sono eccezioni e non sono casi isolati. Del resto se quei parlamentari hanno cercato la platea televisiva era perché sapevano di trovare approvazione. L’occhio televisivo ha fatto da mezzo scatenante, come a confermare quanta osmosi ci sia tra dentro e fuori le istituzioni, quanto unitario sia il clima e lo stile della sfera pubblica.
La politica plebea è una versione deturpata della sfera pubblica democratica, facile da attecchire quando i partiti fanno secessione dallo spazio sociale rinchiudendosi nelle istituzioni. Perché a metterli in comunicazione può a quel punto essere solo una serie eclatante di eventi: i parlamentari devono fare notizia per essere visibili al loro pubblico. È questa distanza che contribuisce a rendere il discorso politico un’arte privata che deve toccare le corde del gusto, essere di godimento come l’urlo, la risata, la baruffa. Il paradosso è che l’audience plebea è un pubblico passivo di uno spettacolo che non mette in scena, un occhio reattivo che non controlla nulla. Tutto avviene dietro le quinte; in diretta restano le parole violente e le offese.
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