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« Lutter pour mettre fin a la violence contre les femmes »

di Nicoletta Pirotta, IFE Italia - FAE
lunedì 24 luglio 2017

Lo scorso 26 novembre 2016, giornata internazionale contro la violenza maschile contro le donne, a Roma una grande manifestazione ha testimoniato la volontà femminista di dire basta alla violenza. Non siamo state le sole. Qualche anno fa in Spagna, e in tempi più recenti in Brasile, in Messico, in Argentina, in Polonia, in Inghilterra e in Irlanda, le donne hanno occupato, con numeri eccezionali, le strade delle città per denunciare la molteplicità delle violenze di cui sono ancora vittime. Violenze infatti non sono solo gli omicidi o gli stupri. Violenza è costringere le donne all’aborto clandestino, causare la morte per obiezione di coscienza (i numeri in Italia sono vergognosi: 7 medici su 10 sono obiettori) , chiudere o ridurre i consultori, negare dunque nei fatti il diritto all’ autodeterminazione sul proprio corpo.

I numeri in Italia parlano chiaro: quasi sette milioni di donne hanno subito qualche forma di abuso nel corso della loro vita. Dalle violenze domestiche allo stalking, dallo stupro all’insulto verbale, dalle minacce all’omicidio la vita femminile è costellata di violazioni della propria sfera intima e personale. Spesso un tentativo di cancellarne l’identità, di minarne profondamente l’indipendenza e la libertà di scelta.

Il tragico estremo di tutto questo è rappresentato dall’omicidio di una donna con la quale si hanno legami sentimentali o sessuali che dimostra di essere ancora un reato diffuso ed un problema che necessita di una risposta non solo giudiziaria, ma culturale e educativa. I numeri sono impressionanti. Secondo l’Istituto nazionale di statistica in Italia ogni due giorni una donna viene uccisa. Nel 2016 sono state 120 le vittime ammazzate in famiglia, da un marito, o da un fidanzato o da un convivente. Questo tipo di omicidio rappresenta la parte preponderante degli omicidi contro le donne. Più dell’82 per cento dei delitti commessi a scapito di una donna, nel nostro paese, sono classificati come femminicidi. Un numero gigantesco: oltre quattro su cinque.

La violenza sulle donne ha una dimensione domestica , avviene cioè in famiglia. Nella maggioranza dei casi infatti la vittima è italiana, solo nel 22 per cento dei casi è straniera. Lo stesso dato emerge per quanto riguarda il carnefice. Il 74,5 per cento degli assassini sono di nazionalità italiana.

Esistono normative specifiche, a livello nazionale e internazionale, che cercano di contenere il fenomeno. Esse si muovono nel quadro delineato dalla Convenzione di Istanbul, primo strumento giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Una convenzione importante che, per la prima volta, riconosce la violenza sulle donne come forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione.

Ma evidentemente né le leggi né le convenzioni internazionali sono in grado di risolvere il problema perché la violenza di genere è un problema culturale, politico sociale ed economico ed ha fattori che sono al contempo psicologici, culturali e simbolici. Un problema che ha radici profonde che hanno a che vedere con la cultura misogina che ancora domina ed imperversa. Una cultura che si alimenta di stereotipi e pregiudizi secondo i quali la donna resta pur sempre, e nonostante tutto, il "secondo sesso" come aveva ben svelato Simone De Beauvoir.

La violenza sulle donne è dunque uno dei marchi più significativi lasciati sui corpi dalla natura dei rapporti di potere del nostro tempo.

Scrive Lea Melandri, storica femminista italiana : “ Il dominio dell’uomo sulla donna si distingue da tutti gli altri rapporti storici di potere per le sue implicazioni profonde e contraddittorie. Innanzi tutto, la confusione tra amore e violenza: siamo di fronte a un dominio che nasce e si impone all’ interno di relazioni intime, come la sessualità e la maternità. Ci sono parentele insospettabili che molti non riconoscono o che preferiscono ignorare. La più antica e la più duratura è quella che lega l’amore all’ odio, la tenerezza alla rabbia, la vita alla morte” E dunque, sostiene Melandri, la famiglia “Il luogo che tutti vorremmo al riparo di una società sempre più conflittuale e competitiva conserva il più lungo e il più enigmatico dei domini che la storia ha conosciuto: la guerra mai dichiarata che porta l’uomo, mosso da desideri e paure antiche, a celebrare il suo dominio sul corpo femminile”

Il movimento delle donne degli anni settanta compie una prima grande rivoluzione. Con il rivoluzionario slogan (che mantiene intatto ancora oggi il suo potenziale trasformao) “Il personale è politico” si sposta infatti l’attenzione dalla sfera pubblica alla vita personale, dalla “questione femminile” – le donne trattate alla stregua di qualsiasi minoranza – al rapporto di potere tra le donne e gli uomini ”. Da questo punto di vista lottare per l’emancipazione delle donne è fondamentale ma non basta. E’ necessario riconoscere alle donne una cittadinanza compiuta e quindi diritti certi ed esigibili in termini di parità ed eguaglianza (lavoro, welfare, salute, istruzione, …) ma insieme va messo in discussione il dominio maschile. Proprio a partire dall’ espropriazione del loro copro e della loro vita che le donne hanno subito: riduzione a oggetto, confusione tra sessualità e maternità, cancellazione della sessualità femminile messa al servizio dell’obbligo riproduttivo.

Per questo non si può comprendere la violenza contro le donne, se non si comprende la natura dei rapporti di potere fra i sessi . Rapporti di potere che hanno costruito un sistema di dominazione fondato sulla subordinazione delle donne e sulla dominazione di un sesso sull’altro. Se non si svela questo sistema di potere e se non se ne mettono in discussione i meccanismi difficilmente si potranno trovare soluzioni efficaci al dramma delle violenze contro le donne.

Questa opera di svelamento e demistificazione deve intrecciarsi però con un’altra consapevolezza.

Dentro la crisi, che sempre più si configura come una costante del capitalismo odierno, non solo vengono cancellati quei diritti collettivi che sono stati alla base degli “welfare state” solidaristici che abbiamo conosciuto nel secolo scorso ma vengono sperperate risorse umane e materiali, con il risultato di produrre in serie infelicità, paura, disorientamento, schiavitù, sfruttamento, violenza, guerra. In un siffatto contesto, fondamentalismi e integralismi di varia natura possono disporre di un considerevole ascolto, in particolare fra i ceti sociali più colpiti dalla crisi, e trovare spazio per una spettacolare ascesa. Per inciso segnalo che su questa preoccupante ascesa stiamo organizzando per il prossimo ottobre a Roma un seminario internazionale su “La libertà delle donne nel XXImo secolo. Pensieri e pratiche oltre i fondamentalismi” .

In preparazione di questo seminario con alcune amiche abbiamo sottolineato come una parte di questi fondamentalismi si esprimono attraverso modalità classiche quali razzismo e xenofobia, ma una parte altrettanto consistente si alimenta di riferimenti religiosi che, pur non identificandosi completamente con questa o quella religione, ne utilizzano la capacità di persuasione e suggestione. Ed è bene ricordare che la religione, in quanto apparato ideologico, è una delle più potenti radici del sistema patriarcale.

Il fondamentalismo è nemico della libertà perché mette sotto scacco i principi di laicità e libero arbitrio. Nelle società in cui l’ordine patriarcale vige in maniera incontrastata, ma anche in quelle in cui è stato messo in discussione da tempo, sono le donne a pagarne il prezzo più alto, perché il loro diritto all’autodeterminazione e la loro libertà di decidere autonomamente del proprio corpo e della propria vita risultano insopportabili a chi vuole conservare il sistema di potere patriarcale. Che fare dunque?

Senza dubbio vanno difese e se possibile ampliate tutte le leggi e le normative a qualsiasi livello. Un quadro giuridico preciso e chiaro è senza dubbio necessario per garantire interventi concreti. Così come vanno sostenuti, soprattutto sul piano economico, le reti e le associazioni di donne che forniscono un’assistenza concreta ed un accoglienza necessaria alle donne vittime di maltrattamenti, stupri, soprusi e violenze in genere. Reti ed associazioni che, in Italia, hanno svolto e svolgono un’azione importantissima sia sul piano materiale che culturale.

Ma c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare.

Lo scorso 8 marzo in Italia e in numerose parti del mondo si è reso visibile in modo straordinario un femminista internazionale nuovo.

Con lo slogan “Non una di meno”, che dà nome al movimento stesso, ha rioccupato la scena politica un movimento femminista che prova a tenere insieme la lotta contro la violenza all’ opposizione alla precarizzazione del lavoro e della vita e allo stesso tempo si oppone all’ omofobia e alle politiche razziste sull’ immigrazione.

Un movimento femminista che afferma una semplice verità: se le donne non sono libere nessuno è libero.

Un movimento femminista che ritrova la sua dimensione politica e per questo non vuole lottare non “solo” per i diritti delle donne ma mettere in discussione tutti i sistemi di dominazione.

Un movimento che ci regala speranza ed insieme una possibilità concreta: quella di lottare insieme a livello internazionale per provare (riprovare) a cambiare il mondo.



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