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Venti di maggio

di Andrea Bagni
martedì 7 giugno 2011

Volendo potevo capirlo già quest’anno scolastico, che il vento stava cambiando.

Gli studenti, è vero, avevano fatto il loro solito casino di autogestione e occupazione, ma con un pizzico di creativa disperazione in più. Dopo il blocco stradale della superstrada sotto la pioggia, alle domande preoccupate dei genitori del consiglio di istituto su cosa avrebbero fatto se il decreto Gelmini passava, avevano risposto da comici spaventati guerrieri, Non è possibile, sarebbe la fine di tutto, sarebbe la rivolta sociale. Noi adulti avevamo sorriso – figuriamoci, la Rivolta (perché l’avevano pronunciata proprio con la maiuscola), il mito, la leggenda. In fondo sentivamo nostro destino un paese anestetizzato, rassegnato a tutto, fra un moto di romantica insorgenza e l’altro. Tutt’al più si poteva arrivare alla categoria dei fenomeni carsici, che appaiono per poi scomparire. Era anche per me il massimo dell’ottimismo.

Poi però a febbraio, dopo l’appello di donne uscito sull’Unità, tutta la scuola si mobilita per andare in piazza. Persone che mai avresti creduto. Oh, vengo anch’io questa volta, non se ne può più, dove ci troviamo, c’è uno striscione? E ce n’erano di striscioni, soprattutto artigianali, sorprendenti per energia, gioia, ironia. Uno portato da un gruppetto in divisa recitava, Noi siamo le infermiere, quelle vere. Un’altra aveva scritto, Io la do gratis. Era la democrazia.

Io un po’ speravo che quel rifiuto della volgarità del potere e dei suoi servi (maschi), quella festa delle passioni sarebbe cresciuta nelle strade e nelle piazze fino alla crisi di un governo impresentabile, non solo per i militanti di sinistra.

Mi aspettavo lo tsunami dei movimenti, invece è arrivato il terremoto delle elezioni.

Adesso possono raccontare e raccontarsi della vittoria dei partiti e delle loro nomenclature, della tenuta della democrazia rappresentativa vecchio stile. Però a Milano, in piazza del Duomo, la sera di lunedì ci sono andato anch’io – arrivato da lontano, orfano da troppo tempo di gioia politica. Quella piazza non raccontava nessuna vittoria di gruppi dirigenti ma una liberazione di popolo. Dalla volgarità, dalla paura, dall’arroganza. C’era l’eleganza delle passioni, l’affetto degli sconosciuti, un tessuto emotivo collettivo. E scarso leaderismo perché se lo senti parlare Pisapia ti fa quasi tenerezza, ti vien voglia di dirgli, dai non ti preoccupare, te la diamo noi una mano. Il carisma di Forrest Gump.

Raccontava, Milano, di una società civile che rivendica la sua civiltà. La sua gentilezza. Non si può puntare più di tanto sull’odio e sul rancore, alla fine quello che dici o fai all’altro, lo fai a te stesso. Ed era quella piazza piena di ragazze e ragazzi bellissimi come mi sembrano sempre i ragazzi e le ragazze in piazza. Napoli non deve essere stata molto diversa – casomai con il rischio di un nuovo Eroe della motocicletta, un po’ alla Chavez. Ma ha scritto molto bene Ermanno Rea: una certa dose di giacobinismo ogni tanto ci vuole e il dichiararsi “moderati” come fosse chissà che qualità, è una cosa che fa schifo.

Certo questi giovani sono abbastanza “cinquestelle”, almeno quelli della mia scuola. Ti dicono subito che è tutto marcio, che non ne possono più, che se ne devono andare tutti e chiuso. Nelle piazze spagnole forse non hanno gridato cose molto diverse. C’è di sicuro più sentimento che riflessione politica. Però i sentimenti sono un punto di partenza niente male, e la riflessione fredda alla fine non capisce nulla della realtà che vorrebbe possedere “scientificamente”. Ragazze e ragazzi almeno sembrano partire da se stessi e dalle loro condizioni di vita. Confuse. Dal presente incerto e dal futuro assente. Roba che non sanno descrivere bene, ma che sentono benissimo. Nell’aria, sulla pelle.

Certo è una dimensione se non apolitica, a-partitica e a-ideologica, che spesso rifiuta ogni appartenenza di destra o di sinistra. Ma credo agisca qui un rifiuto delle sintesi, delle “sistemazioni complessive” che chiedono appartenenze immobili, stabilite una volta per tutte, piuttosto che l’assenza di temi o valori. Lavoro, natura, relazioni umane, libertà personale di fronte alla vita e alla morte – a me sembrano essere per i giovani temi sensibili.

Per noi il punto è riuscire a passare da questa soggettività diffusa, adulta e giovanile, culturale e sentimentale, a un soggetto politico: costruzione di luoghi e spazi pubblici, in cui possa vivere e non solo esplodere. Riempire di mondo e di vita lo sguardo circoscritto di Theo, il ventenne di Sabato che spiega al padre che se guarda lontano, alle cose grandi, vede solo un mare di merda e si sente del tutto impotente: dunque ha deciso, d’ora in avanti solo pensieri su scala ridotta. Fare sentire i luoghi, la propria vita, come spazi anche quelli politici (soprattutto quelli) e globali, non è facile, soprattutto se non si danno strumenti per non essere impotenti. Ma non servono prediche, piuttosto incontri, esperienze, luoghi di narrazioni e confronto. Vuol dire parlare di beni comuni, sottratti sia al mercato sia allo Stato, ricondotti alle comunità - politiche, aperte - alle persone e alle loro relazioni.

Potrebbe essere anche un modo per non ricadere poi in una triste “politica di governo”, quella vincolata al mare di miliardi che l’Europa chiede per non finire come la Grecia. Un modo per non ricadere negli equilibrismi di coalizione o di programma. Abbiamo già dato. Potrà essere anche difficile e triste governare in Europa, ma non deve più intristire. Qualche messaggio altro lo deve mandare: che col professore si può discutere, che non si copia più il primo-della-classe, che si è cambiato un po’ copione.

Perché la sera dopo Milano mi sono fermato su Ballarò e ho sentito tutto il centrosinistra schierarsi con il rigore di Tremonti contro il Berlusconi Furioso pronto a disfare qualunque bilancio pur di tornare a vincere. Ora, il populismo è una brutta bestia certo, ma se l’alternativa è di nuovo il matrimonio con i banchieri e le agenzie di rating, mi sa che siamo messi male. Pensate a che succederebbe alla scuola, alle ragazze e ai ragazzi, se fossero ancora e sempre registrati come voce di spesa. Archiviati. Lo dovrebbero sapere anche i “modernizzatori”: la meritocrazia si può fare solo se c’è l’uguaglianza, e l’etimo di competere è andare nella stessa direzione. Condividere.

Bisogna trovare il modo di spostarsi. Cambiare grammatica e alfabeto. Bisogna che in qualche modo quella soggettività civile e ribelle, quel tessuto culturale che disegna un’altra Italia, trovi la maniera di diventare soggetto politico. All’altezza. Misurandosi con gli spostamenti socioeconomici, la deindustrializzazione e la trasformazione del commercio, il lavoro autonomo di seconda generazione, il sapere messo al lavoro e le famose partite iva - patria (tradita) del berlusconismo. Dovrà essere qualcosa di radicalmente diverso dalle forme piramidali, gerarchiche, costruite a imitazione dello stato novecentesco, o peggio degli eserciti, che hanno caratterizzato le vecchie forme del partito. Bisogna imparare dagli anticorpi che ancora straordinariamente agiscono, a inventare altri corpi intermedi della democrazia rappresentativa.

Riuscire a fare questo non sarebbe fare qualcosa per i nostri ragazzi e le nostre ragazze. Sarebbe fare qualcosa con loro. Forse anche permettergli di fare qualcosa per se stessi, da soli. E loro sì che potrebbero inventare qualcosa.


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Venti di maggio

6 marzo 201712:00, di Mario L
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