I conti non mi tornano. Negli ultimi trent’anni (più o meno) il Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale e le multinazionali, sostenuti dai governi occidentali, hanno imposto al mondo l’applicazione delle ricette economiche e sociali di stampo neoliberista : precarizzazione del lavoro dipendente, privatizzazione dei servizi, finanziarizzazione dell’economica, aumento delle spese militari (arrivate ad un trilione di dollari l’anno!), costruzione del mercato globale per l’affermazione di un consumismo sfrenato sostenuto anche ( forse soprattutto) dall’indebitamento individuale.
I risultati sono sotto gli occhi di tutte/i : precarietà del lavoro e della vita non più e non solo per le giovani generazioni ( che pagano senza dubbio il prezzo più alto in termini di condizioni materiali di vita e di possibilità di costruirsi un futuro); superamento dei sistemi pubblici di welfare con il conseguente peggioramento della qualità dei servizi scolastici, sanitari, assistenziali; aumento esponenziale delle diseguaglianze e conseguente indebolimento della democrazia; affermazione di una “cultura del disgusto” che produce la diffusione di insicurezze, paure, disagi, frustrazioni, invidie a tutto danno della solidarietà, dell’etica, della responsabilità.
Sottolineo , però, che, poiché viviamo in una realtà governata da sistemi di potere fondati sulla gerarchia di genere e di classe, la crisi globale di cui tanto si parla non colpisci tutte/i allo stesso modo : le donne, in particolare se giovani, immigrate e con lavori precari, sono le più colpite.
E’ paradossale che i medesimi soggetti che hanno determinato la crisi ora salgano in cattedra per indicare come risolverla! Ed è ancora più paradossale che le ricette che indicano sono le stesse che hanno portato alla crisi!
Jeffrey Sachs, consigliere ONU, e direttore dell’Earth Institute della Columbia University, ha dimostrato, per esempio, che se gli Stati Uniti tagliassero tutti programmi sociali in corso (così come vorrebbero le destre variamente rappresentate) resterebbe un buco pari al 6% del PIL americano.
Il problema dunque non dovrebbe solo essere come affrontare la crisi ma come cambiare il modello economico, sociale e politico che l’ha determinata!
Le cittadini e i cittadini che scendono in piazza da Atene a New York, da Madrid a Tunisi, da Il Cairo a Washington propongono altre soluzioni. Le proposte che avanzano sono interessanti perché si rifanno ad un orizzonte di senso che sembrava, ai più, ormai obsoleto.
Si propone di rilanciare l’ economia domandosi prima cosa e come produrre, si conviene sull’importanza di avere diritti di cittadinanza universali ed includenti in particolare quelli relativi al lavoro e si torna a desiderare un sistema pubblico di welfare che garantisca un presente dignitoso ed un futuro possibile. Si propone una patrimoniale sulle ricchezze , che solo poco tempo fa pareva scandaloso soltanto pensarla, e si chiede di porre un limite alle spese militari.
Un progetto di società ed un programma politico che prendesse sul serio di queste proposte potrebbe avere qualche chance non solo di far tornare i conti ma anche di rimettere in circolo energia positiva e voglia di cambiamento. Se non ora quando?
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