Non riesco a capire cosa possa esserci di così poco grave in uno stupro di gruppo da non richiedere gli arresti tout court.
Non mi va nemmeno di informarmi, perché sono sicuro che entrerei in una logica giuridica che mi farebbe perdere qualsiasi capacità di orientamento.
In questo caso preferisco affidarmi alle mie emozioni, ai brividi fisici che provo a immaginare una scena simile.
Purtroppo questa immagine non provoca, in un uomo, solo sentimenti raccapriccianti.
C’è una parte d’ombra dove albergano anche sensazioni di attrazione morbosa che mi sono sempre domandato da dove provengano.
E quando al bar o al lavoro, ti ritrovi con colleghi o compagni a condannare sentenze come queste, senti che lo fai anche per contrastare quella sensazione che proviene, dentro di te, da quella “parte” che cerchi di ricacciare nel profondo.
Allora può darsi che tu alzi la voce, che ostenti, più di quanto dovresti, parole di condanna non solo dirette a far capire al tuo interlocutore il tuo sdegno, ma a una parte di te stesso.
Senti un sentimento di vergogna non solo per il tuo genere, ma per quella tua “appartenenza” a quel mondo dal quale mai hai forse preso le distanze in modo netto, mai così come avresti dovuto fare.
Succede così allora che per rinnegare quella tua parte rischi di schierarti in un modo esagerato dalla parte delle donne, di recitare una retorica dovuta, come appunto fa chi sa di essere in debito grande.
Ci vorrebbe un gesto di accettazione della propria imperfezione di uomo, una sorta di pietà non per gli stupratori (mai) ma per quella parte grigia che Primo Levi ci ha insegnato a riconoscere.
Quella pietà potrebbe rendere forse più limpido il proprio grido di sdegno.
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