Nella nostra «parlata» — l’italiano — il lemma «morale» — tanto nella sua versione maschile che femminile — presenta una singolarità linguistica che non appare in altri idiomi. Noi diciamo, ad esempio: «Ho il morale alto» quando siamo «su di morale»; e diciamo «la morale della favola» con un significato del tutto diverso; ma è solo con l’aggettivo che il termine acquista l’autentica equivalenza con quello di «etico». Questa triplice connotazione del termine ci porta spesso a falsificarne l’impiego. Certo, possiamo accettare che «fare la morale» sia «morale», o che il fatto che il mio «morale» sia alto abbia a che fare con la moralità dei miei atti; ma tuttavia, questa ambiguità terminologica porta facilmente a strani equivoci. Fino a che punto, ad esempio, possiamo essere convinti che esista una «morale corrente»? E che la stessa corrisponda a un atteggiamento etico? In altre parole, quello a cui vorrei giungere è: fino a che punto possiamo ragionare di una «globalità morale»? (che invece è assente il più delle volte). La tanto esaltata — e in parte effettiva — globalizzazione dei comportamenti, dei costumi, delle manifestazioni, da molti attesa come una panacea universale, destinata a risolvere conflitti, tensioni, rivalità tra i popoli e le nazioni, è in realtà molto più problematica di quanto non sembri. Gli enormi vantaggi della rapida comunicazione sono evidenti; ma, proprio per quanto si riferisce al campo della morale, sarebbe auspicabile che ogni eccesso globalizzatore fosse considerato con la massima oculatezza, perché giudico molto pericoloso il verificarsi di una uniformità dei principi che regolano il costume e l’etica di una determinata popolazione. La rapida generalizzazione dei modi di essere, di comportarsi, di vestirsi, di alimentarsi, fa sì che vadano perduti, imbastarditi, o rallentati quelli che erano dei fondamentali principi familiari, comportamentali, morali delle singole nazioni. O addirittura delle singole regioni. Molti di questi principi potevano in realtà soddisfare singole nazioni, e apparire assurdi o addirittura peccaminosi ad altre; ma erano comunque il perno attorno a cui ruotava la «morale corrente» (ecco ancora un’altra connotazione del nostro termine) di solito seguita e rispettata dalla maggioranza. Gran parte dei quesiti che riguardano il settore della sessualità, dei rapporti generazionali, delle pratiche religiose e liturgiche, delle tradizioni tribali, avevano un’indiscutibile anche se spesso perniciosa potenza. È facile comprendere come la scomparsa, o anche l’attenuazione, di queste pratiche e di queste convenzioni, doveva causare immediatamente un sovvertimento dei costumi e l’adozione soltanto di quelli più «comodi», meno vincolanti. Ne abbiamo infiniti esempi sotto i nostri occhi, soprattutto da quando una generalizzata immigrazione di popoli diversi dal nostro per costumi, religioni, valenze etniche, ha fatto la sua comparsa anche in Europa. Non si contano i casi di intolleranze reciproche, di dissapori dovuti a fattori etico-etnici, a pratiche religiose inaccettabili dalla «nostra» morale (infibulazioni, tabù alimentari tramandati da antiche superstizioni, macellazioni rituali, eccetera), che, a contatto con civiltà diverse, sono forieri di dissensi e di incomprensioni sempre più accentuati. Quando si riflette sul fatto che già il grande filosofo empirista David Hume riteneva il modo di comportarsi dei musulmani e di altre etnie come assurdo e dannoso, ma tuttavia giustificabile in base all’insieme delle regole e delle massime della loro religione, sarà facile comprendere che non è possibile volere a tutti i costi privilegiare i propri modi di essere e di vedere rispetto a quelli altrui, senza che questo provochi vere e proprie tensioni non solo ideologiche ma pratiche ed esistentive. È da questa premessa che il mio ragionamento circa un’etica globalizzatrice vuole prendere l’avvio. Appunto dalla convinzione che solo attraverso un processo molto lento, molto cauto, e molto attento a ogni norma e tradizione dei singoli popoli e Paesi si possa giungere — probabilmente dopo molti decenni — a un «comune denominatore» etico, tale da soddisfare tutti i diversi Paesi e le diverse nazioni. Questa eventualità — certamente destinata prima o poi, a verificarsi — deve peraltro permettere di compiere, già oggi, alcuni passi al fine di ottenere, col tempo, un’etica del «villaggio globale». E, al fine di ottenerla, ritengo che sia essenziale un costante studio delle diverse morali esistenti, del loro rapporto con le varie religioni, della progressiva e cauta eliminazione delle tradizioni esclusivamente legate a equivoci interpretativi o a norme derivate da situazioni un tempo esistenti e oggi scomparse (divieto di certi cibi perché a quei tempi pericolosi); accanimento contro il nudo femminile, e in generale contro ogni «libertà» femminile, dovuto a paradossali convinzioni circa la «peccaminosità» d’ogni rapporto sessuale; accettazione della pena di morte; presenza di «caste»; e centinaia di altre consimili norme ancora ben radicate. Naturalmente, sarebbe stolto non tener conto del peso che, ancora ai nostri giorni, mantengono molte pratiche basate, oltre che su dogmi religiosi, su valori magici, esoterici, tanto nel caso di effettive tradizioni tribali, quanto in quelli di arbitrarie sette mistiche e occulte (dal candomblé brasiliano alle macumbe afroamericane, agli infiniti sopravvissuti cerimoniali misteriosofici). Ecco dunque che, se da un lato non possiamo voler eliminare da un giorno all’altro e di colpo le singole tradizioni etiche d’ogni popolo, dall’altro non dobbiamo neppure ritenere che si possa istituire immediatamente un codice — o un «vangelo» — di norme etiche universalmente accettabile. Sicché, in definitiva, ritengo che, solo con un’educazione illuminata e con una presa di coscienza delle diverse «morali», si possa giungere, a una autentica globalizzazione etica del — poco auspicabile — «villaggio globale
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