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Il sè nella relazione con l’Altro.

di Grazia Aloi
mercoledì 25 giugno 2014

Chiunque si occupi di Psicoterapia conoscerà il grosso filone legato alla Teoria Relazionale, indipendentemente dal fatto che utilizzi o meno questo assetto mentale quale indirizzo di modalità diagnostica e terapeutica.

Tanti sono gli studi e gli approcci ma io, qui, vorrei riferimenti a quanto approfonditamente studiato, scritto e verificato dal collega Luciano L’abate di Atlanta. (...)

Ci conosciamo da parecchi anni e tra noi – pur essendo da un punto di vista professionale il diavolo e l’acqua santa (o viceversa, dipende dai punti di vista) - c’è una profonda stima oltre che un grande affetto quasi raro tra colleghi di opposte posizioni e di così tanta distanza anche geografica; per questo motivo Luciano L’abate non manca mai di inviarmi i suoi pezzi e io, generalmente, non manco di accontentarlo con i miei modesti confronti con la Psicoanalisi.

Questa volta mi ha coinvolta in un parere su un altro aspetto della sua Teoria Relazione: il Modello del Sé.

In questo lavoro, egli teorizza ulteriormente diversi tipi di Personalità, le quali si combinano alternativamente a seconda della strutturazione del Sé individuale all’interno della /e in rapporto alla coppia (che per lui è quella intima matrimoniale), facendo valere, per la risultanza relazionale, poli di attrazione nella disuguaglianza, di repulsione o di accettazione a seconda della base patologica o meno del o dei partner.

E’ una Teoria non nuova visto tra l’altro che si tratta di una revisione del 2000 e, a dirla tutta, è pure da tempo nota in Terapia Sistemica Familiare come teoria che produce, all’interno della relazione disfunzionale, il cosiddetto “paziente designato”.

Penso, però, che l’innovazione o la suggestione stia nell’equiparare quanto già noto ai livelli del DSM IV – che è il suddetto sistema nosografico Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali IV - (il lavoro è precedente alla pubblicazione della V edizione o “cinque” come alcuni Colleghi preferiscono chiamare la nuova edizione).

Qualcosa su questa teoria, tradotta in termini semplici e adatti a riflessioni comuni: il concetto di base è che ognuno trasmette all’Altro (intimo) la rappresentazione della auto attribuzione di importanza / non importanza di Se stesso.

Ossia, tutti noi abbiamo una considerazione di noi stessi e siamo in relazione con l’Altro solo se e quando trasmettiamo a questo Altro la nostra auto-considerazione.

E dunque, ci sono delle categorie:

1 “io non sono importante né per me stesso né per te”

2 “ io sono molto più importante di te e tu sei meno importante di me”

3 “ tu sei molto più importante di me e io sono meno importante di te”

4 “ io e te siamo importanti allo stesso modo”.

E’ chiaro che le prime tre categorie appartengono a relazioni disfunzionali fino ad arrivare alle vere e proprie patologie e a comportamenti che possono sfociare addirittura nella criminalità (ad esempio, omicidio per la seconda modalità di pensiero e suicidio per la terza; mentre la 4 rappresenta, come evidente, la modalità di funzionamento normale ed adeguato.

La mia considerazione molto in generale è che ci sia un po’ il rovescio di quanto da me (e da altri) teorizzato: qui siamo noi (è il nostro Sé) che in-forma l’altro e non viceversa e pertanto non è l’Altro che ci in-forma, ci dà-forma e consistenza del nostro esistere.

I poli sono però differenti: da una parte si considera l’attribuzione di importanza e si dà per scontata l’esistenza; dall’altra, si parte dal riconoscimento di esistenza, ancor prima di dirsi (e dire) che si è importanti, quanto e perché.

Questa la riflessione proposta all’amico L’Abate e qui ripresa perché: primo, per fare “onore” all’Altro, al pensiero/sapere dell’Altro (che sia L’Abate o chiunque) rispetto al mio e poi perché penso che un po’ di presentazione accademica ai vari lettori non addetti ai lavori non faccia male, se non altro per aprire le porte della scienza psicologica e psico-quant’altro che così tanto incuriosisce tutti noi e, perché no?, per aprire a proficue riflessioni in proprio.

Questo scritto, dunque, non è indirizzato ai Colleghi, in quanto non credo che essi abbiano la necessità di un mio articolo per saperne eventualmente di più sulla Teoria Relazionale ma – occupandomi io in ambito psicoanalitico della traslazione della teoria in questione - vorrei dedicare alla conoscenza generale qualche riflessione in più.

E, dunque, qualche pensiero:

già in un mio lavoro di anni or sono scrissi dell’importanza del riconoscimento “di riflesso” dell’altro quale base indispensabile per la conoscenza di Sé e per la differenziazione dell’Io e ora mi addentro in un territorio abbastanza tortuoso: il Sé e, appunto, l’Altro – cioè l’importanza e il significato dell’essere in relazione con qualcuno al di fuori di Sé.

Tortuoso perché di non facilissima elaborazione psicologica. Infatti, parecchio nella vita si dà per scontato, senza coglierne i rilessi e i rimandi psichici. Ossia, ci si ferma alla superficialità che, da che mondo è mondo, l’altro esiste. Chiunque sia, c’è. Il fatto è però “quanto” e “come” ci rendiamo conto di questa esistenza.

L’Altro è indispensabile (indispensabile, dunque ben più di importante) a tutti noi per parecchi motivi; vediamone alcuni:

poter percepire che il mondo è un contenitore nel quale c’è posto per il Dentro (Io) e per il Fuori (l’Altro);

poter percepire che tra gli oggetti (persone e cose) c’è (e ci deve essere) distanza;

poter percepire la sua mancanza/assenza e poterne sperimentare il desiderio;

poter indirizzare i propri istinti vitali – sessuali e poter abbandonare in maniera matura il narcisismo (“esisto solo io”) costituzionale della nascita;

poter etero indirizzare/convogliare l’aggressività, le emozioni in generale ed i sentimenti, piuttosto che solamente auto rivolgerli.

Ma c’è di più:

l’Altro (la relazione con l’Altro) ci permette (e anche ci obbliga) nel divenire “doppi” nella nostra unicità, una sorta di Giano Bifronte che veglia sulle due direzioni di “entrata/uscita”: sul “passaggio”, appunto, di Me / Non Me – ossia sulla creazione del Sé relazionale.

Il “bicefalismo” metaforico consente sia di pensare all’Altro (il fuori da Sé) e sia di pensare ai propri passaggi e mutamenti interiori; pertanto,“sapere” (rendersi psichicamente conto) che esiste l’Altro permette, appunto, la duplicazione dell’Io e la conciliazione degli opposti (qualunque categoria di opposti).

E ancora: fin qui, la conseguenza della percezione affettiva (psichica) dell’Altro; inoltre, l’esistenza in quanto tale (ancor più che l’effettiva presenza) di esso ci auto-regola e ci auto-informa anche sulla sperimentazione e normativizzazione del vivere sociale.

Vi è poi la sommatoria della percezione affettiva /psichica e della regolamentazione sociale che fa un po’ da quadratura del cerchio: l’Altro dà senso e pregnanza al Futuro e al “gioco” che con tale futuro si può instaurare. (“vivo anche per Te e non solamente per Me”).

E questo è una bella botta di responsabilità, perché se è vero che è l’Altro a validare la nostra esistenza è altrettanto vero che ognuno di noi è, a propria volta, l’Altro per l’Altro.

Se questo è un pensiero che resta superficiale, siamo nella situazione di nevrotica insofferenza della vita, perché potrebbe anche non andarci di fare i conti con la maturità affettiva e quindi non essere né esigente nei confronti dell’altro né tanto meno generoso; potrebbe non esserci gratificazione alcuna proveniente dalla alterità e si vivrebbe in una sorta di noncurante alienità dove tutto “va bene”, tutto fila liscio.

Il vantaggio è la calma libidica e lo svantaggio è …. altrettanto la calma libica



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