IFE Italia

Il calvario delle tunisine con Ben Alí

di Thierry Brèsillon
martedì 18 aprile 2017

Dal novembre 2016 e dall’inizio delle audizioni pubbliche organizzate dall’Instance Verité et Dignité, ritrasmesse in diretta alla televisione, la società tunisina esamina i suoi decenni di dittatura.

Creata per fare luce sui soprusi di Stato perpetratisi per oltre mezzo secolo, questa Istanza raccoglie le testimonianze di donne e uomini che hanno subito i peggiori abusi.

Grazie a questi interventi, i tunisini scoprono, in particolare, fino a che punto le donne ne siano state vittime. Indirettamente, in quanto madri o mogli di militanti arrestati o di manifestanti uccisi. Ma anche e soprattutto, direttamente, come donne impegnate: sindacaliste, studentesse, militanti di estrema sinistra o appartenenti al partito islamista Ennahda. Alcune testimonianze hanno sconvolto l’opinione pubblica : “Quando fui arrestata per la seconda volta nel 1996, avevo appena partorito e i punti di sutura dell’episiotomia sono saltati sotto i colpi dei poliziotti”confida Najwa Rezgui, militante del sindacato.

“La violenza praticata durante gli interrogatori o nel periodo di detenzione sfruttava precisamente le vulnerabilità femminili. E il fatto di essere incinta o madri di un bimbo piccolissimo non le proteggeva dalla brutalità, tutt’altro.” ci conferma Ibtihel Abdelatif, direttrice delle commissione “donne” all’interno dell’istanza incaricata di condurre a buon termine il processo della giustizia di transizione. “Ad alcune si è impedito di allattare per provocare loro dei dolori, separate dal loro bimbo per distruggere il legame familiare” aggiunge.

Ibithel Abellatif, presidentessa della Commissione Donne dell’Istanza Verità e Dignità Crédit photo. Inkyfada.org “Non solo i poliziotti non avevano alcuna remora nel prendersela con delle donne, ma addirittura si capiva che erano stati addestrati a ciò” ha potuto constatare Meherzia Ben El Abed, militante islamista, arrestata e torturata per due volte all’inizio degli anni ’90. “Iniziano con insulti molto degradanti, anche poliziotti giovani, poi spogliano le donne continuando a umiliarle. Mi dicevano delle cose tipo “se tu fossi una brava ragazza, non saresti qui tutta nuda”.

L’ombra dello stupro, potenziale o praticato, incombe su tutte le testimonianze. “Era un metodo per spaventare le famiglie. Quando comincia a girare la notizia dell’arresto di una donna, la gente pensa subito che abbiano abusato di lei” spiega Meherzia El Abed.

“Per una donna essere spogliata davanti agli uomini è già il massimo” confida Hamida Ajangui, militante islamista passata più volte sotto tortura “Non l’avevo raccontato a nessuno, neppure a mia madre, prima di parlarne in pubblico” Combattuta fra il desiderio di testimoniare e quello di proteggere la sua famiglia, lei fa parte di coloro che tentano di far retrocedere i limiti dell’indicibile. “Qualche ora prima dell’audizione, mio fratello mi ha chiamato per dirmi di non raccontare tutto” prosegue “pensa alle tue figlie, mi ha detto

Ma io volevo che si sapesse quello che vivevano le donne in Tunisia, questo paese che tutti vantavano come esempio di rispetto dei diritti delle donne”

Durante la sua audizione, asciugandosi regolarmente le lacrime e riprendendo con un sorriso, allora ha raccontato “ Minacciavano di violentarmi con un bastone. Un uomo ubriaco mi ha obbligato a stare contro il muro mentre mi spogliava. Ho urlato Basta, non farlo” e ha terminato con l’apice del suo calvario. Il giorno dopo il suo passaggio in televisione, alcuni vicini di casa l’hanno chiamata per dirle che erano fieri di lei “Questa testimonianza mi ha anche riavvicinato a mio marito”spiega.

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