IFE Italia

Quel che non dobbiamo sapere sul cibo

Silvia Ribeiro
lunedì 20 novembre 2017

Nel 2009, il gruppo ETC ha pubblicato un rapporto che ha dimostrato come il 70 per cento della popolazione mondiale si nutre grazie alla produzione delle reti contadine e degli altri fornitori di generi alimentari su piccola scala. Il dato ha provocato sorpresa e talvolta negazione, perché le multinazionali che dominano la catena alimentare industriale, si sono incaricate di farci credere che sono imprescindibili e che senza di loro non si potrebbe nutrire la popolazione, cosa completamente falsa.

Nella nuova versione rivista e ampliata, pubblicata nel 2017, si riafferma che più del 70 per cento della popolazione mondiale si rivolge alla rete contadina per tutta o gran parte della sua alimentazione, anche se questa rete dispone di meno del 25 per cento della terra, dell’acqua e dei combustibili usati in agricoltura. La pubblicazione ¿Quién nos alimentará? ¿La red campesina o la cadena agroindustrial?

Dall’altro lato, la catena alimentare agroindustriale occupa più del 75 per cento di tali risorse, ma alimenta solamente l’equivalente del 30 per cento della popolazione mondiale. Al contempo è una fonte di problemi per la salute e l’ambiente, ed è il principale produttore di gas a effetto serra che provocano il cambiamento climatico, secondo i dati di Grain.

Quello che nel gruppo ETC chiamiamo rete contadina, include i contadini e gli indigeni, i pastori, i raccoglitori, i cacciatori, i pescatori artigianali, oltre a un miliardo di “contadini urbani” che preservano i giardini, allevano piccoli animali e coltivano gli orti nelle aree urbane: un totale che ammonta complessivamente a 4 miliardi e 500 milioni di persone. La maggioranza di loro svolge al momento una e l’altra di queste attività, oltre ad alternarle, per ragioni economiche, con impieghi urbani.

Definiamo la catena alimentare industriale come una sequenza lineare di fasi che vanno dai fattori di produzione agricola (genetica vegetale e animale, agrotossici, fertilizzanti, medicina veterinaria, macchinari agricoli) fino a quello che si consuma nelle famiglie, passando per le catene di trasformazione, imballaggio, refrigerazione, trasporto, stoccaggio, vendita di prodotti sfusi, al dettaglio o nei ristoranti. Dalle sementi ai supermercati, la catena è dominata da una ventina di multinazionali, alle quali si aggiungono grandi banche, investitori, speculatori e politici.

Sono vasti gli impatti negativi di questa potente catena, tanto sulle economie locali e nazionali quanto sulla salute e l’ambiente, oltre a quello che non conosciamo.

Ad esempio per ogni importo che i consumatori pagano per i prodotti della catena industriale, la società paga un importo doppio per rimediare ai danni che provocano alla salute e all’ambiente. Secondo dati del 2015, si spendono 7,55 miliardi di dollari all’anno in alimenti industriali, ma di questa quantità, 1,26 miliardi sono cibi consumati in eccesso, che provocano obesità, diabete e altre malattie e 2,49 miliardi è cibo che si spreca. Oltre alla cifra pagata direttamente per comprare i prodotti, la società paga altri 4,8 miliardi di dollari per danni alla salute e all’ambiente. Pertanto, sul totale delle spese collegate all’alimentazione industriale (12,32 miliardi di dollari l’anno), il 70 per cento è controproducente!

La cifra pagata per danni alla salute e all’ambiente, si basa su dati ufficiali, che riflettono solo una parte delle spese che si sostengono per la salute. Ciò nonostante, questa cifra è cinque volte la spesa annua mondiale in armi.

La produzione industriale di salmone in Cile. Foto tratta da MercoPress La catena alimentare agroindustriale produce molto più cibo di quello che alla fine arriva ad alimentare la popolazione. Dove va a finire, allora, tutta questa produzione? Per cominciare, il livello di spreco dall’agricoltura industriale alle famiglie è enorme: secondo la FAO va dal 33 al 40 per cento. Se la produzione agricola si misura in calorie – una misura povera, poiché non mostra la qualità di energia, ma è quella disponibile – , il 44 per cento è dedicata all’alimentazione del bestiame (ma di questo solo il 12 per cento arriva all’alimentazione umana), il 15 per cento si perde in trasporto e stoccaggio, il 9 per cento si usa per gli agrocombustibili e altri prodotti non commestibili e l’8 per cento finisce come rifiuti domestici. Solamente il 24 per cento delle calorie prodotte dalla catena industriale arriva direttamente a nutrire le persone.

Ci sono molti più dati nelle 24 domande che pone il documento, che è un lavoro collettivo strutturato per essere accessibile alla maggioranza della popolazione, basato su centinaia di fonti delle Nazioni Unite e di organizzazioni di ricerca accademiche e indipendenti. Tra le altre conclusioni, risulta chiaro che il discorso sul sistema alimentare, vitale per la sopravvivenza di tutti, pullula di miti al fine di favorire la catena industriale, le imprese transnazionali e gli interessi finanziari che su di esso lucrano. Ma sono le reti contadine, quelle che malgrado l’enorme ingiustizia sull’accesso alle risorse, nutrono la maggioranza della popolazione mondiale, avendo cura inoltre della biodiversità animale, vegetale e dei microorganismi, l’ambiente e la salute. Il 16 novembre si terrà una presentazione del rapporto presso la Universidad Autónoma del Estado de México (UNAM Università Autonoma dello Stato del Messico) (Maggiori informazioni: https://tinyurl.com/ybgxalkp).


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