IFE Italia

Una civiltà al bivio

di Elizabeth Peredo Beltrán*
sabato 23 maggio 2020

Elizabeth Peredo Beltrán (Bolivia) psicologa, autrice e attivista per i diritti delle donne e della natura. Fa parte dell’Osservatorio Boliviano su Cambiamenti Climatici e Sviluppo (OBCCD). Collabora con varie riviste accademiche ed organizzazioni social con analisi su questioni relative ai cambiamenti climatici e la crisi di civiltà, la giustizia ambientale, i diritti umani e l’ecofemminismo.

Fonte:https://comune-info.net/una-civilta...

Immagine: manuelaadreani.blogspot.com/2016/07

Nell’intero pianeta è in corso un dibattito tra caos ed equilibrio, distopia ed orizzonti possibili. In un mondo globalizzato e ingiusto, il coronavirus, nella sua crescita esponenziale, acquisisce maggior notorietà in quanto vettore del caos. Di conseguenza risulterebbe offuscata la gravità di altre crisi già segnalate come sintomi di una malattia mortale: l’erosione dei beni comuni, la crisi climatica e l’allarmante perdita della biodiversità, lo spostamento di grandi masse sociali verso la precarietà, l’inasprimento delle violenze e della violenza patriarcale, in sintesi… il sacrificio umano e della natura per permettere la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.

Tuttavia, lo sconvolgimento causato dal Covid19 non è evento diverso dal capitalismo globale, ma piuttosto la sua continuazione e deriva conseguente alla rottura con la Natura da esso provocata. La crisi del coronavirus si aggiunge e si mimetizza con altre crisi di ordine sistemico, svelando ed approfondendo le ingiustizie e i divari sociali provocati dalla civiltà capitalista nei nostri territori e nei nostri corpi con l’effetto accumulato in meno di cinque secoli di modelli insostenibili di produzione, commercio, consumo ed occupazione dei territori.

Questa crisi si colloca nella realtà del “Capitalocene” (1), un nuovo stadio del pianeta dominato dalla specie umana sotto il giogo del capitalismo globalizzato, della colonizzazione e del patriarcato, allineati verso la reificazione, la mercificazione ed il saccheggio di tutto l’esistente. Il cammino dal capitalismo del disastro al capitalismo del caos lascia la sua orma nel corpo del mondo e nei nostri corpi, spezza i vincoli primordiali dell’interdipendenza e della collaborazione. La terra, i suoi strati profondi, i suoi boschi, l’acqua, l’aria, l’atmosfera, lo spazio che la circonda e perfino la luna sono inondati da questi segni che lasciano ferite e cicatrici. Questa realtà materiale connota la pandemia del coronavirus, amplificando su grande scala gli impatti del capitalismo moderno, portandone a fior di pelle e con maggior brutalità il filo del rasoio. Ciò determina uno scenario critico in particolar modo per i più poveri, per i più vulnerabili, per gli esseri umani nelle periferie, per i settori depauperati del Nord e del Sud, per il Sud Globale. Le disuguaglianze si amplificano in modo drammatico, anche se per la prima volta la minaccia raggiunge anche le sfere più alte della società.

È la fine del capitalismo?

Molto si è detto sul fatto che questa crisi potrebbe porre fine al capitalismo, il cui meccanismo risulta temporaneamente interrotto dal collasso delle catene produttive e di consumo, delle nicchie di accumulazione ricavate dai vantaggi comparatidella globalizzazione. Secondo i rapporti di analisti specializzati (2) in poche settimane di quarantena, le emissioni da uso domestico in Cina si sono ridotte del 25%, un volume pari al 9% delle emissioni mondiali. Situazioni simili di rallentamento economico e di consumo di energia fossile sono avvenute in centinaia di altre città, nazioni e regioni dove la riduzione dell’attività sta producendo una riduzione dell’inquinamento dell’aria e perfino un ritorno di specie animali alle città, vuote in un mondo in confinamento. Tutto ciò sembra autorizzare la speranza – nutrita con molto entusiasmo da alcuni filosofi ed analisti (3) – di poter velocemente recuperare la strada persa, giacché il capitalismo sarebbe al punto di concludersi a favore di una società riconciliata con la natura.

Tuttavia, tale aspettativa sulla fine del capitalismo non può essere coltivata sulla pelle di chi sta soffrendo e lottando in prima linea contro una pandemia che si è impossessata dei più vulnerabili, i più poveri, gli anziani, le donne e le popolazioni indigene. Né può sottrarsi alla realtà quotidiana delle lavoratrici e dei lavoratori del settore sanitario in tutto il mondo, né delle persone incaricate di raccogliere i corpi stroncati dalla pandemia. Non si può smettere di pensare a coloro che con il loro sforzo stanno sostenendo le catene di lavoro e produzione per la vita – cibo, sanificazione, pulizia, energia – molti dei quali sottomessi a dispotiche gerarchie padronali e statali. Non si può smettere di pensare alle popolazioni migranti dalle proprie terre per la catastrofe climatica, per le guerre, la mancanza d’acqua e terre coltivabili. Vale a dire, quei gruppi umani che le élites finanziarie e politiche hanno collocato nella precarietà con un messaggio che pare ispirare le loro azioni e decisioni politiche: “ci sono vite dalle quali si può prescindere”. Alimentare la speranza di una trasformazione non autorizza a perdere di vista i rapporti di potere e la capacità delle élites di proteggersi ed intensificare il saccheggio per salvare la propria pelle. Nemmeno il fatto che la cornice di rifermento attuale sia quella di un nuovo paradigma, il “Capitalocene”, nuova era planetaria nella quale le classi dominanti possono “convivere” con la distruzione, l’ingiustizia e il caos incrementandolo fino all’aberrazione.

L’aspettativa che la società risulti trasformata dal COVID19 non può limitarsi all’illusione causata dalla diminuzione delle emissioni e del recupero degli equilibri climatici, in considerazione del fatto che – secondo alcune analisi – le emissioni potrebbero calare del 5% nel 2020 (4) proprio a seguito della crisi innescata dal COVID19. Una tale percentuale di riduzione resta infatti insufficiente rispetto alla scala di distruzione generata dal metabolismo capitalista. Secondo l’accordo di Parigi le emissioni annuali andranno ridotte del 7,5% per un periodo di 10 anni consecutivi, e andranno prese misure straordinarie di transizione e trasformazione dei modelli di consumo energetico, ad oggi non ancora messe in atto. Il coronavirus ci interpella, ma, a meno che le società non decidano di invertire la rotta ed agire di conseguenza, non sarà possibile porre fine all’ecocidio causato dalle dinamiche simultanee di iperproduzione, eccesso di consumo ed accelerazione attualmente in corso.

Questa crisi ha certamente messo in primo piano la rilevanza della Natura e ci ha ricordato la maniera inclemente con la quale abbiamo abusato del luogo che occupiamo nel sistema- Terra, mostrandoci anche la complessità della sfida che ci troveremo dinnanzi qualora scegliessimo di attribuire una dimensione politica al perseguimento della giustizia e la ricostruzione dei rapporti umani come chiave per la cura della Natura. Soprattutto perché ci ricorda che dovremmo anzitutto decolonizzare le nostre menti per porre fine agli asservimenti che ci ha imposto il capitalismo. Non è possibile concepire astrattamente una uscita politica, femminista ed ecologista da questa crisi civilizzatrice, senza “una elaborazione del lutto” collettivo (Butler, 2002) al fine di “ubicare” la comprensione di questa nuova realtà planetaria. Vale a dire, adottare “la vulnerabilità e l’interconnessione come punto di partenza” (5) dai corpi biologici e sociali alla Terra sofferente e ferita. Perché sarà così che scopriremo le forze, la speranza e gli orizzonti possibili.

Dimensioni del conflitto capitale-vita

La crisi del coronavirus ha messo in evidenza il conflitto capitale-vita. Oggi si gioca e si svela con tutte le sue conseguenze la tensione tra dinamica dei tessuti riproduttivi della vita ed essenza di un capitalismo neoliberale che ormai non può offrire prosperità o benessere all’umanità o al pianeta. Questa crisi emblematica lascia intravvedere altre distorsioni nascoste dalla lobby delle “corporation” e della politica – ad esempio il negazionismo di vetrina – che sbandiera i suoi argomenti ma nel contempo si blinda con apparati di sicurezza finanziaria, tecnologica, politica e militare (6) erodendo sistematicamente i diritti umani e quelli della Natura. La sostanza di tale contrasto emerge nelle reazioni tardive e controverse di molti leader politici dei governi, nella rappresentazione che questi hanno fatto senza alcun imbarazzo del dilemma tra “salvare l’economia o salvare vite umane”. Sebbene sia certo che alcuni governi stanno investendo in modo significativo nella protezione (con denaro che non avevano prima investito per i poveri), la deregolamentazione spinta nelle ultime decadi in molti paesi dal neoliberalismo ha comportato lo smantellamento dei sistemi di salute e altri beni pubblici fondamentali rendendoci così più vulnerabili. Inoltre – ed in piena crisi – non si sono fatti attendere piani di salvataggio delle imprese che, assieme a nuove forme di circolazione delle merci, stanno creando nuove traiettorie e riconversioni marcate dal DNA capitalista (7). In molti casi sono state proprio le esigenze padronali di “continuare a produrre” nei settori non prioritari, a provocare l’aumento dei contagi e l’inasprimento della crisi sanitaria. Questa pandemia ha interrotto alcune catene e nicchie di accumulazione del capitale e minaccia tangibilmente le sfere più alte della società. Allo stesso tempo però ha attivato ciò che Maristella Svampa identifica come un Leviatano Sanitario (8) recuperando il concetto di Hobbes che allude agli scenari del controllo statale, già analizzati in riferimento ai cambiamenti climatici (9). Un Leviatano che oggi si propone una ristrutturazione dell’ordine capitalista dall’emergenza sanitaria, dal mio punto di vista, sotto forme politiche di “confinamento”–“cessazione del confinamento” che frammenterebbe il corpo politico e sociale, disperdendo la moltitudine assicurando contemporaneamente la piena libertà delle lobby imprenditoriali per ridisegnare le economie mondiali “post-coronavirus”.

Il panorama critico rappresentato dalla riduzione delle libertà civili si accompagna ad una narrativa dicotomica della salute tra “salute-malattia” propria di un paradigma – oggi inteso come cardine della ragione scientifica moderna – centrato sull’ospedalizzazione, sul paziente, il virus, il potere della conoscenza tecnologica e scientifica, e la salvezza portata dal vaccino. La risposta che stanno dando i servizi pubblici, spesso in condizioni avverse, in mancanza di materiali ed in condizioni di precarietà è di assoluto valore, ma passato al vaglio di un approccio sociopolitico questo modello “focalizzato sul virus” rischia di escludere una prospettiva olistica delle interconnessioni con la salute del pianeta. Il dominante modello “biomedico” di salute che emerge dal dualismo cartesiano, esclude dalla mappa cognitiva le cause ecologiche, sociali ed economiche della crisi, il suo ordine sistemico, l’interconnessione della salute umana con la salute planetaria. Restringe così la possibilità di una maggiore partecipazione/collaborazione con la società e del riconoscimento del sapere sociale, dei saperi femminili, comunitari e popolari di solidarietà e gestione della crisi che – di fatto – hanno nel corso della storia hanno salvato l’umanità innumerevoli volte. In parallelo si assiste alla nascita di una base sociale di ultradestra di gruppi sparsi per il mondo, rappresentata ad esempio dalle azioni di strada “anti confinamento” di stampo suprematista, che godono dell’appoggio di Trump negli USA e Bolsonaro in Brasile, e che fanno eco alle aspirazioni di imprenditori come Elon Musk e altri che gridano alla fine del confinamento appellandosi alla “libertà del mercato”.

Si erge di nuovo un capitalismo finanziario che ha imparato ad uscire dalle proprie crisi per ripresentarsi con la sua “dottrina dello Shock” (10). Come dice bene Emiliano Terán dell’Osservatorio di Ecologia Politica del Venezuela: la crisi del coronavirus “mette a nudo i simulacri del potere” (11). E così, il mondo “post coronavirus” è già il mondo che stiamo vivendo. La “riconfigurazione” – che è già iniziata – sta mettendo in evidenza le lotte all’interno dei gruppi dominanti e può essere brutalmente capitalista invece di rendere percorribile l’agognata transizione verso la “riduzione delle disuguaglianze” e la “sostenibilità degli ecosistemi” oppure, ancor di più, verso un cambiamento del paradigma civilizzatorio, che si ripropone con urgenza e necessità inedite, e su scala globale, Gli orizzonti di una transizione sociale, o di “salto” civilizzatorio, come indicato metaforicamente dal virus, è possibile solo se saremo capaci di generare un tessuto sociale e una soggettività che possa rispondere all’ingiustizia ed alle logiche del potere. Occorre interpellare il potere il prima possibile, per richiedere giustizia e attenzione alla vita, esigendogli di riconnettersi alla natura assumendo un carattere olistico, interdipendente rispetto alla nostra condizione umana, giacché le vere cause di questa pandemia risiedono nel saccheggio dell’ecocidio che ha propiziato il capitalismo del caos.

Qualche alternativa emergente

I virus – che sono miliardi nel pianeta – “saltano” verso la specie umana in circostanze particolari per alloggiare in un ospite e diventare così patogeni. La perdita di biodiversità creano le condizioni favorevoli per generarne altri in grado d’intaccare la specie umana ed altre specie poiché le barriere rappresentate dalla biodiversità ecologica si stanno deteriorando. Queste “condizioni” favorevoli al sorgere di questi ed altri vettori di infezioni e malattie sono rappresentate dalla deforestazione e dalla distruzione di ecosistemi che a loro volta producono alterazioni tali da rendere possibili tali “squilibri” patogeni, come indicato di recente in un ampio rapporto del WWF (12). I cambiamenti climatici e la perdita della biodiversità sono due crisi che ci stanno conducendo rapidamente verso questi scenari. Questo tipo di virus, sempre più frequente, ha causato malattie di enorme impatto sociale nelle ultime decadi: la SARS, “influenza aviaria” H5N1 (2002-2003), “l’influenza suina” H1N1 (2009), la MERS-CoV (Sindrome Respiratoria Medio Orientale) (2012), l’ebola (2013). Come sottolineato opportunamente da Silvia Ribeiro del Gruppo ETC; alcune di loro si sono prodotte in circostanze connesse alla produzione alimentare su scala industriale (13).

Il salto del virus ha fatto “saltare” la civiltà ad un tempo e ad uno spazio politico che obbliga a pensare all’espropriazione della natura ed alla relazione con l’ingiustizia umana come due fenomeni articolati. Sta facendosi strada nel campo della conoscenza una possibilità di capire la contraddizione, il paradosso, l’interdipendenza, la qualità olistica del sistema Terra. Di fronte all’enorme complessità ed ingiustizia, dobbiamo interrogarci in maniera complessa, auto riflessiva, conforme al momento che stiamo vivendo, inondato com’è da paradossi ed “ossimori” (espressione usata da Boris Cyrulnik (14), che raggruppa significati contrapposti per generarne uno nuovo), in quanto segno di un momento storico che ci fa transitare nell’incertezza, nella dialettica della complessità per crearne uno nuovo. Mai come prima d’ora è essenziale una visione della Natura e del nostro rapporto con essa, come fonte di ispirazione di un’azione che può essere sostanziale. È da qui che vogliamo sviluppare una prassi e una narrativa che superi la crisi di senso che ci assedia. Resistere a partire dal paradigma relazionale, dalla vulnerabilità e dall’interdipendenza umana. Un’epistemologia diversa per uscire dalla logica del mercato e al suo posto guardare/sentire , “sentire/pensare” (15) il mondo come se fossimo un pangolino, un pipistrello, un bosco, acqua, terra umida dalla quale germogli una brezza di vita, dal giorno dopo giorno del confinamento, dal giorno dopo giorno dei popoli, in cui la morte, il dolore, la sofferenza in solitudine diventi comune, si commuova e commuova altri per rompere con l’individualismo al quale vuole condurci il paradigma dominante/agonizzante del capitale. A partire dalla complessità di un virus che “salta” su un ospite umano perché la “frontiera” in cui abita è la frontiera del saccheggio e non offre nessuna alternativa.

E proprio qui che vorrei riscattare la nozione corpo-territorio su cui riflettono gli ecofemminismi in America Latina, i corpi come nostro primo territorio (Ivone Guebara) (16). Come un luogo da dove si può resistere, costruire autonomie e tessere comunità, e da dove si può articolare la connessione con un territorio più grande. Le pratiche politiche dei femminismi hanno tessuto queste connessioni di fronte al femminicidio e hanno politicizzato il dolore per convertirlo in agenda autonoma propria. È possibile costruire un corpo esteso nella Natura per smontare la menzogna del mercato fatto di tempi e priorità estrattive e patriarcali. Lo sguardo dal territorio permette di partire dai tessuti che formano la vita, dagli esseri umani capaci di collaborare e stabilire legami di convivialità democratica, logiche di giustizia ambientale, umana. Queste prospettive dovranno inondare i nostri argomenti, poiché ci offrono la “punta del fuso” per imprimere un nuovo significato a questo momento storico, oltre le matrici che la modernità capitalista pretende d’imporre agli immaginari sociali con l’obiettivo di rieditare il “business as usual” attraverso la paura e l’autoritarismo statale. È adesso, in questa soglia critica, in questo “spazio frontiera” (17) del saccheggio della Natura, che questi nuovi sguardi iniziano a maturare incontrando milioni di persone, e con esse la possibilità di una diversa. narrazione di questa storia. La costruzione di un nuovo senso comune di fronte al “Capitalocene” si svolge in condizioni straordinarie: allorché – nonostante le violenze – si è destato un interesse collettivo inedito nel guardare oltre per intravvedere queste interconnessioni.

Sono innumerevoli i contributi in gestazione nell’ultimo secolo, a partire dal pensiero critico e dall’ecologia politica che hanno contraddistinto quest’epoca nella ricerca di alternative per trasformare la società e il rapporto con la Natura (18). Ebbene, oggi stiamo di fronte ad una realtà che ci obbliga a dare concreta storicità a queste proposte, frutto di riflessioni ed esperienze politiche. Come non mai i concetti e le possibilità – transizione, decrescita, deglobalizzazione, beni comuni, ecofemminismo – possono convertirsi in orizzonti possibili. La crisi del coronavirus ha riposizionato i dibattiti sulla transizione e la trasformazione socio-ecologica e sulla necessità di una soggettività ed un’azione politica creativa che ne permettano la realizzazione. Ha riattualizzato i dibattiti globali sui limiti alla crescita ridato impulso ai dibattiti sul pensiero critico, come l’ecofemminismo, il Buen Vivir, i diritti della Natura, le società della decrescita, i beni comuni e i loro rapporti con i beni pubblici (19). Chiavi indispensabili per declinare percorsi di trasformazione. La centralità della cura, nel senso integrale della parola, dev’essere affrontata dalla sua complessità e con una posizione critica sulle condizioni di dominio patriarcale in cui si trova attualmente per strapparla all’assedio a cui è sottoposta. Il suo contributo visibile – che si potrebbe rappresentare in una percentuale pari al 24% e il 66% dell’economia (20) potrebbe fornire le basi per una riformulazione delle priorità nell’organizzazione dell’economia e della società. Nella misura in cui verrà affrontata con giustizia e sia collegata alla cura della natura, alla gestione del bene comune, alle dinamiche della decrescita e della trasformazione socioeconomica, la cura potrà procurarci valide piste per riprodurre tessuto sociale, arricchire ed evolvere in “comunità di vita” a partire dalla proposta ecofemminista. Il paradigma olistico dell’interdipendenza offre oggi le basi per affrontare questa sfida della trasformazione a partire da e verso la vita quotidiana; un ethos della collaborazione al tempo delle piccole cose, il tempo di tornare a tessere territorio e comunità umana. È tempo di “fare ecologia” del mondo che ha oltrepassato i limiti della natura e che richiede di essere curato integrando molti mondi, come il “Pluriverso” per il post -sviluppo che propone Alberto Acosta, mèta verso la quale si sono orientati migliaia di attivisti, pensatrici e pensatori per immaginare un futuro possibile (21).

Domande nel cassetto

Secondo alcune analisi sarà forse possibile “appianare la curva” del coronavirus in due anni, a condizione che si prendano misure radicali di “isolamento sociale”, con periodi di quarantena senza precedenti non solo per contenere la pandemia, ma anche per attenuarla ed eliminarla. (Gideon Lichfield, 2020), (Hubert, 22 marzo 2020) (22). Altri affermano che quella che stiamo vivendo sia solo la punta dell’iceberg, e che dovremmo affrontare altri episodi simili provocati da cambiamenti globali quali la perdita della biodiversità ed i cambiamenti climatici, vettori critici di uno sconvolgimento su grande scala. Come sarà possibile sostenere queste misure di confinamento prolungato e allo stesso tempo assicurare la vita, la democrazia e la libertà dell’azione politica? Come si assicurerà alle popolazioni l’accesso a cibo, servizi, salute, acqua, sanificazione rispettando i diritti delle persone che lavorano in queste aree? Come verranno prese le decisioni per gestire le città, i paesi, le comunità? Come si affronterà questa realtà in contesti come l’America Latina, l’India, l’Asia o l’Africa dove non è possibile il confinamento, inteso nella maniera immaginata dall’occidente “moderno”? Come verranno prese le decisioni per la necessaria trasformazione dell’economia, e delle matrici energetiche e produttive? La riflessione sulla democrazia è centrale. Siamo in un tempo in cui gli spazi di interazione ed il tessuto sociale si stanno restringendo drammaticamente. Lo spazio pubblico diventa virtuale; una quotidianità che dà il via alla ristrutturazione degli attori sociali e dell’inconscio collettivo; lo spazio virtuale isolato – sebbene abbia un potenziale di articolazione – può creare soggettività politiche frammentate e intrappolarci in una dinamica nella quale l’abisso seduce più della possibilità di cambiare il mondo. Come garantiremo la democrazia? Qual è lo “stato di diritto” che vorremmo restituire? Eppoi, questa democrazia non è forse ormai obsoleta? Non si è forse dimostrata incapace di raccogliere la tradizione deliberante delle comunità, delle donne? E … Come includere il non-umano, la Natura stessa come “soggetto di diritto”? La moltitudine che interpella il sistema e rivendica diritti andrà ricostruita raccogliendo la trama delle rivolte sociali delle ultime decadi, contro il saccheggio ecologico, il patriarcato e l’ingiustizia sociale, nella consapevolezza che tali complesse sfide dovranno confrontarsi con strutture rinnovate del potere. Se vogliamo che le società umane non solo sopravvivano, ma che prosperino su base comunitaria e armonica con la Natura, dovremo affrontare questi ed altri ostacoli attraverso il recupero dei fondamenti etici dell’alterità e l’eco-dipendenza a fronte alla razionalità capitalista moderna. Così sarà possibile costruire una comunità che dall’incertezza e dalla certezza sappia coltivare la speranza, proprio come ci si prende cura del seme di un nuovo frutto.

Traduzione dallo spagnolo di Ingrid Dussi dall’originale pubblicato su Alternativas Sistemicas Note: [1] Moore, Jason W., Anthropocene or Capitalocene? (2015) https://www.versobooks.com/blogs/23...; El antropoceno como diagnóstico y paradigma, Lecturas Latinoamericanas. Utopía y Praxis Latinoamericana Nº84, Univ. de Zulia, 2019, Venezuela. http://produccioncientificaluz.org/... [2] Analysis: coronavirus temporarily reduced China’s emissions by a quarter https://www.carbonbrief.org/analysi... [3] Zizek considera il Covid-19 come il colpo finale al Capitalismo “alla maniera di Kill Bill” https://actualidad.rt.com/actualida... , Enrique Dussel, intravvede la fine dell’era capitalista http://www.coha.org/cuando-la-natur... [4] Carbon emissions from fossil fuels can fall by 2.5bn Tonnes by 2020 – The Guardian https://www.theguardian.com/environ... ; The corona virus and the limits of the individual climate action – The Republic https://newrepublic.com/article/157... [5] Butler, J. Vida Precaria: el poder del duelo y la violencia, 2006,Paidos, Bs.As. [6] Per questo raccomando il lavoro prodotto da Buxton ed Hayes (2015) sulle dinamiche di protezione imprenditoriale e militare a fronte dell’emergenza dei cambiamenti climatici: The secured and the dispossessed: how the military and corporations are shaping a climate-changed world https://www.tni.org/en/publication/... [7] Azan, G, Aguiton, Ch.,et al. La reubicación ya no es una opción sino una necesidad para la sobrevivencia de los sistemas económicos y sociales, Attac, 22/3/2020 https://france.attac.org/actus-et-m... [8] Svampa, M., Reflexiones para un mundo post coronavirus. Nueva Sociedad. Abril 2020. BsAs. https://www.nuso.org/articulo/refle... [9] López, X. Leviathan in interiore Green New Deal. Nov. 2019. La U (Revista de cultura y pensamiento) https://la-u.org/leviathan-in-inter... [10] Klein, N. (2007) La doctrina del Shock: El auge del capitalismo del desastre, Paidós. Buenos Aires. [11] Terán M. Emiliano. El coronavirus mas allá del coronavirus: umbrales biopolítica y emergencias.Marzo 31 2020. Caracas, Venezuela. https://oplas.org/sitio/2020/03/31/... [12] Reporte Pérdida de Naturaleza y Pandemias. WWF (World Wide Forum)2020 https://d80g3k8vowjyp.cloudfront.ne... [13] Ribeiro, S. Los hacendados de la pandemia. Grupo ETC 2020: “En México vimos como se originó la gripe porcina en 2009, a la cual le pusieron el aséptico nombre de Gripe A H1N1, para desvincularla de su puerco origen. Originó en la fábrica de cerdos llamada Granjas Carroll, en Veracruz, entonces co-propiedad de Smithfield, la mayor productora de carne a nivel global. Smithfield fue comprada en 2013 por una subsidiaria de la mega empresa china WH Group, actualmente la mayor productora de carne porcina del mundo, ocupando el primer lugar en ese rubro en China, Estados Unidos y varios países europeos.” http://www.biodiversidadla.org/Reco... [14] Boris Cyrulnik, filosofo, psicologo e psicoanalista francese, creatore del concetto psicosociale di resilienza concepisce l’ossimoro, figura retorica che accoppia due concetti antagonistici per crearne uno nuovo, come due concetti figura base delle possibilità creative degli esseri umani di fronte alla sofferenza. [15] Escobar A. (2016) Sentirpensar la tierra: Las luchas territoriales y su dimensión ontológica en las Epistemologías del Sur. AIBR, Revista de Antropología Iberoamericana. Vol 11 Nº1. Madrid. [16] La filosofa e teologa femminista brasiliana Ivone Guebara parla di “corpo territorio” recuperando non solo la resistenza comunitaria e femminile dei territori contro l’estrattivismo in America Latina, ma anche il significato del “nostro corpo” nostro primo territorio” di fronte al potere ideologico del capitalismo, e del suo dominio sui desideri attraverso il mercato. [17] Peredo, E., Un mundo frontera: reflexiones en tiempos del antropoceno. Systemic Alternatives, 2019 https://systemicalternatives.org/20... [18] Il dossier pubblicato Alternativas Sistémicas pubblicato dalla Fundación Solón in Bolivia, con edizione in francese “Le monde qui emerge” pubblicata da ATTAC (2016) rappresenta un contributo pertinente alla fase attuale. https://systemicalternatives.org/20... [19] Dardot, P. y Laval, Ch. Lo común, ¿un principio revolucionario para el S. XXI?, intervista realizzata da P.Cingolani e A.Fjeld, in Reinvenciones de lo común/Revista de Estudios Sociales Nº70, Octubre de 2019. [20] Duran Heras. MA. (2012) El trabajo no remunerado en la economía global. BBVA, Bilbao. [21] Pluriverso-Un diccionario del postdesarrollo. Kothari, A., Escobar, A., Salleh,A., Acosta, A.; Icaria, 2019, Barcelona. [22] Lichfeld, G. We are not going back to normal, MIT Technology Review, 2020. https://www.technologyreview.com/s/... Hubert, T. El Martillo y la danza: Como serán los próximos meses si nuestros líderes ganan tiempo https://medium.com/tomas-pueyo/coro... Elizabeth Peredo Beltrán (Bolivia) psicologa, autrice e attivista per i diritti delle donne e della natura. Già direttrice della Fondazione Solón è membro dell’Osservatorio Boliviano su Cambiamenti Climatici e Sviluppo (OBCCD). Collabora con varie riviste accademiche ed organizzazioni social con analisi su questioni relative ai cambiamenti climatici e la crisi di civiltà, la giustizia ambientale, i diritti umani e l’ecofemminismo.


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