IFE Italia

La crisi dello Stato

di David Graeber
domenica 13 settembre 2020

Gli zapatisti non sono affatto un fenomeno eccezionale. Parlano una varietà di lingue maya (tzeltal, tojalobal, chol, tzotzil, mam), sono originari di comunità che hanno tradizionalmente conosciuto un certo grado di autogoverno (in parte perché così potevano funzionare come riserve di lavoro indigeno per gli allevamenti e le piantagioni situati altrove), e di recente hanno formato nuove comunità, in gran parte multietniche, in nuovi territori della Selva Lacandona [Collier, 1999; Ross, 2000; Rus, Hernandez e Mattiace, 2003]. In altre parole, sono un classico esempio di quegli spazi di improvvisazione democratica di cui ho parlato, in cui un amalgama indefinito di persone, molte delle quali con esperienze precedenti di autogoverno municipale, porta alla costituzione di comunità inedite al di fuori del controllo diretto dello Stato. E non c’è niente di particolarmente nuovo neppure nel fatto che sono al centro di un gioco globale di influenze: se da una parte hanno assorbito idee da molti posti, dall’altra con il loro esempio hanno avuto un enorme impatto sui movimenti sociali di tutto il pianeta. Il primo encuentro zapatista del 1996, per esempio, ha portato alla formazione di una rete internazionale denominata People’s Global Action (pga) e basata sui principi di autonomia, orizzontalità e democrazia diretta. Sono entrati a farne parte i gruppi più disparati, come il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra in Brasile, la Karnataka State Farmer’s Association (un gruppo indiano di azione diretta che si ispira al socialismo gandhiano), e un numero infinito di collettivi anarchici in Europa e nelle Americhe, oltre a numerose organizzazioni indigene di ogni continente. È stato proprio il pga a chiamare a raccolta contro la riunione del wto a Seattle nel novembre 1999. I principi dello zapatismo, il rifiuto dell’avanguardismo, l’enfasi sulla creazione di alternative percorribili nella propria comunità al fine di sovvertire la logica del capitale globale: tutto questo ha avuto un’enorme influenza su coloro che hanno partecipato ai nuovi movimenti sociali, anche se spesso le persone coinvolte avevano solo una vaga idea di chi fossero gli zapatisti e quasi sicuramente non avevano mai sentito parlare del pga. Senza dubbio lo sviluppo di internet e delle comunicazioni globali ha permesso a questo processo di procedere più velocemente che in passato, aprendo la strada ad alleanze più formali ed esplicite, ma questo non significa che ci troviamo di fronte a un fenomeno senza precedenti.

Si può valutare l’importanza di questo punto solo se si prende in considerazione ciò che può succedere quando non lo si tiene sempre ben presente. Voglio a questo proposito citare un autore le cui posizioni sono piuttosto vicine alle mie. In un libro intitolato Cosmopolitanism [2002], Walter Mignolo spiega in modo efficace quanto siano legati all’idea di conquista e di imperialismo la tesi di Kant sul cosmopolitismo o la dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti umani. Inoltre cita l’appello alla democrazia degli zapatisti per rispondere a Slavoj Žižek quando afferma che gli attivisti di sinistra devono stemperare la critica all’etnocentrismo, riconoscendo che la democrazia è «l’autentica eredità europea dall’antica Grecia in avanti» [1998, p. 1009]. Scrive Mignolo: "Gli zapatisti hanno utilizzato la parola «democrazia» nonostante essi la intendano in modo differente rispetto al senso che le attribuisce il governo messicano. La democrazia non viene concettualizzata dagli zapatisti a partire dalla filosofia politica europea, ma a partire dal modello di organizzazione sociale dei Maya, fondato sulla reciprocità, sui valori comunitari invece che sui valori individuali, sulla saggezza piuttosto che sull’epistemologia […]. Gli zapatisti non hanno avuto scelta. Sono stati costretti a usare la parola imposta dal discorso politico egemonico, sebbene l’utilizzo della medesima parola non comporti una sua interpretazione mono-logica. Ma una volta che è stata utilizzata, la parola «democrazia» diventa un link attraverso il quale le concezioni liberali di democrazia e i concetti indigeni di reciprocità e organizzazione sociale comunitaria si incontrano [2002, p. 180]"

Si tratta di una buona idea. Mignolo la definisce border thinking, «pensiero di confine», e la propone come modello per arrivare a un sano «cosmopolitismo critico», in opposizione alla variante eurocentrica rappresentata da Kant o Žižek. A me sembra però che Mignolo in questo processo teorico finisca per ricadere in una versione più edulcorata dello stesso discorso essenzialista che sta cercando di evitare. In primo luogo, dire che «gli zapatisti non hanno avuto scelta» se non usare la parola «democrazia» è semplicemente falso. Ovviamente hanno fatto una scelta. Altri gruppi indigenisti hanno fatto scelte diverse. Il movimento aymara in Bolivia, per fare un esempio, ha deciso di rifiutare in toto la parola «democrazia» perché, sulla base dell’esperienza storica del loro popolo, il nome era stato applicato solo a sistemi imposti su di loro con la violenza. Pertanto, la loro tradizione di processi decisionali egualitari non aveva nulla a che fare con la democrazia. A me sembra che la decisione zapatista di accogliere il termine sia stata più che altro una decisione volta non solo a prendere le distanze da una possibile politica identitaria, ma anche a cercare alleati, in Messico e altrove, tra quanti sono interessati a un più ampio dibattito tra le forme di auto-organizzazione (allo stesso modo in cui hanno cercato di innescare un dibattito con chi era interessato a riesaminare il significato di parole come «rivoluzione»). In secondo luogo, Mignolo, come Lévi-Bruhl, si mette a fare paragoni tra mele e arance, cioè tra la teoria occidentale e la pratica indigena. Di fatto, lo zapatismo non è una semplice emanazione delle pratiche tradizionali maya: le sue origini vanno cercate in un prolungato confronto tra queste pratiche e molteplici soggetti, come gli stessi intellettuali maya (probabilmente a loro agio anche con le opere di Kant), o i teologi della liberazione (che si ispirano a testi profetici scritti nell’antica Palestina), o i meticci rivoluzionari (che si ispirano all’opera del presidente Mao, vissuto in Cina). La democrazia non emerge dal discorso di qualcuno. Sembra quasi che anche autori come Mignolo, quando prendono come punto di partenza la tradizione occidentale, magari per criticarla, finiscono per rimanervi intrappolati dentro.

In realtà, «la parola imposta dal discorso egemonico» è in questo caso un compromesso-grimaldello su una parola greca coniata originariamente per descrivere una forma di autogoverno municipale e poi applicata a una repubblica rappresentativa. È proprio questa contraddizione che gli zapatisti hanno ereditato. In effetti, sembra impossibile sbarazzarsene. I teorici liberali [per esempio Sartori, 1987, p. 279] di tanto in tanto mostrano il desiderio di mettere da parte la democrazia ateniese, dichiararla irrilevante e farla finita con questa eredità, ma per motivi ideologici questa mossa è tuttora inammissibile. Tutto sommato, senza Atene non si potrebbe più sostenere che la «tradizione occidentale» ha in sé qualcosa di democratico. Non rimarrebbe che far risalire le nostre idee politiche alle meditazioni totalitarie di Platone, o altrimenti ammettere che non esiste qualcosa che nella realtà corrisponda al concetto di «Occidente». In effetti, anche i teorici liberali si sono chiusi nell’angolo. Ovviamente gli zapatisti non sono i primi rivoluzionari a essersi impossessati di questa contraddizione, ma le loro azioni stavolta hanno avuto una risonanza inusuale e potente, in parte perché ci troviamo in un’epoca in cui lo Stato attraversa una profonda crisi.

Il matrimonio impossibile

Credo che questa contraddizione, nella sua essenza, non sia solo linguistica. Riflette qualcosa di più profondo. Negli ultimi duecento anni, i democratici hanno cercato di innestare gli ideali di autogoverno popolare sull’apparato coercitivo dello Stato. Ma per loro natura gli Stati non si possono realmente democratizzare. Rimangono, tutto sommato, delle forme di violenza organizzata. I Federalisti americani erano realistici quando sostenevano che la democrazia è in contraddizione con una società che si basa sulle diseguaglianze di ricchezza, perché per difendere quella ricchezza serve un apparato coercitivo che tenga a freno la plebe alla quale la democrazia conferisce potere. In questo senso Atene era un caso unico nel suo genere perché era un fenomeno di transizione: c’erano diseguaglianze di potere, probabilmente anche una classe egemonica, ma non esisteva un apparato coercitivo formale. Di qui l’assenza di accordo tra gli studiosi sul fatto se Atene fosse o meno uno Stato.

Analizzando il monopolio della forza coercitiva dello Stato moderno si vedono le pretese democratiche dissolversi in un mare di contraddizioni. Per esempio, mentre le élites moderne hanno in gran parte abbandonato il discorso ampiamente utilizzato in passato sul popolo come «grande bestia» assassina, la stessa immagine torna alla ribalta, quasi nelle stesse forme del XVI secolo, nel momento in cui si propone di democratizzare certi aspetti dell’apparato coercitivo. […]

Francis Dupuis-Déri [2002] ha coniato il termine «agorafobia politica» per riferirsi alla diffidenza verso le deliberazioni e le procedure decisionali pubbliche, una diffidenza che percorre tutta la tradizione occidentale, dalle opere di Costant, Sieyés e Madison fino a Platone e Aristotele. Aggiungerei che anche le conquiste più sorprendenti dello Stato liberale, i suoi elementi più genuinamente democratici come le garanzie sulla libertà di parola e di riunione, rimandano alla stessa agorafobia. Solo quando diventa assolutamente chiaro che il discorso pubblico e l’assemblea non sono il fulcro della decisione politica, ma nel migliore dei casi il tentativo di criticare, influenzare o stimolare chi prende le decisioni, solo allora quelle garanzie diventano sacrosante. Malauguratamente, questa agorafobia non viene condivisa solo dai politici e dai giornalisti ma anche, in larga misura, dal pubblico. Le ragioni non vanno cercate troppo lontano. Le democrazie liberali non hanno niente di simile all’agorà ateniese, ma non scarseggiano di circhi romani. Il fenomeno degli «specchi deformanti», con cui le élites al potere incoraggiano le forme di partecipazione popolare che ricordano continuamente alle persone comuni quanto siano inadatte a governare, sembra aver raggiunto la perfezione in molti Stati moderni. Si consideri per esempio la diversa visione di natura umana che si potrebbe ottenere se si partisse da un’esperienza di guida automobilistica in autostrada o da un’esperienza di trasporto pubblico. Ma questa passione degli americani (o dei tedeschi) per le automobili non è casuale bensì il risultato di decisioni politiche consapevoli prese dai politici e dalle élites industriali agli inizi degli anni Trenta. E si potrebbe scrivere una storia simile anche per la televisione, o per il consumismo, o – come ha osservato Polanyi tanto tempo fa – per il «mercato».

Che la natura coercitiva dello Stato si fondi su una contraddizione fondamentale i giuristi lo sanno da tempo. Walter Benjamin [1978] ha ben colto la questione sostenendo che qualsiasi ordine legale che reclama il monopolio dell’uso della violenza fonda le sue pretese su un potere altro da sé, ovvero su atti che erano considerati illegali nel sistema giuridico precedentemente in vigore. Pertanto, la legittimità di un sistema giuridico poggia necessariamente su atti violenti di natura criminale: i rivoluzionari francesi o americani erano in fondo colpevoli di alto tradimento dal punto di vista del sistema giuridico in cui erano cresciuti. I re sacri, dall’Africa al Nepal, avevano risolto la questione collocandosi, come gli dèi, al di fuori del sistema. Ma come ci ricordano autori come Agamben e Negri, il «popolo» non può evidentemente esercitare la sovranità allo stesso modo. […]

Lo Stato democratico è da sempre un concetto contraddittorio. La globalizzazione – con la sua spinta a creare nuove strutture decisionali su scala planetaria, che hanno semplicemente reso grottesco ogni riferimento alla sovranità popolare o addirittura alla partecipazione – si è limitata a rendere evidente questa contraddizione. Come di consueto, la soluzione neoliberista è stata di confermare il mercato come l’unica forma di decisione pubblica di cui abbiamo bisogno, riducendo lo Stato alle sue funzioni esclusivamente coercitive. Ed è proprio per questo che la proposta zapatista è assolutamente sensata: bisogna abbandonare l’idea che la rivoluzione significhi impossessarsi dell’apparato coercitivo dello Stato e innescare invece un processo di rifondazione della democrazia basato sull’auto-organizzazione di comunità autonome. Questa è la ragione per cui una remota insurrezione nel sud del Messico ha provocato tanto entusiasmo in tutto il mondo, sicuramente nei circoli radicali ma non solo.

Sembra quasi che la democrazia stia tornando negli spazi da cui è sorta: negli spazi intermedi, negli interstizi del potere. Se da lì riuscirà a estendersi all’intero pianeta dipenderà non tanto dalle nostre teorie quanto dalla nostra reale convinzione che la gente comune, seduta insieme a deliberare, sia capace di gestire le proprie faccende meglio delle élites che le gestiscono a loro nome e che impongono le decisioni prese con la forza delle armi. Per gran parte della storia umana, di fronte a queste domande, gli intellettuali di professione hanno sempre preso le parti delle élites. La mia impressione è che la maggioranza delle persone sia ancora sedotta dagli «specchi deformanti» e non abbia fiducia nelle possibilità della democrazia popolare. Ma forse adesso le cose stanno cambiando.


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