Nata a Roma l’8 luglio del 1593, Artemisia Gentileschi compose, non ancora ventenne, una grandiosa Giuditta che decapita Oloferne e portò in tribunale il suo stupratore. “Fino al secondo dopoguerra” - osservano i curatori della mostra di Milano – “Artemisia viene ricordata più per il processo di stupro intentato al collega del padre, Agostino Tassi, che per i suoi evidenti meriti pittorici.” La mostra attualmente in corso al Palazzo Reale di Milano si propone di riparare a questa omissione, Artemisia Gentileschi è infatti una delle figure femminili più affascinanti della prima metà del Seicento. Pittrice caravaggesca, predilige tinte violente con le quali crea singolari giochi di ombre e luci. Femminista ante litteram, ha sostenuto con le parole e con la propria vita il diritto della donna a un lavoro autonomo e congeniale. Entrò all’Accademia delle Arti di Firenze, prima donna a godere di questo privilegio, tenne scuola di pittura a Napoli e lavorò in Inghilterra presso la corte del re. Morì a Napoli nel 1652, secondo quanto ci viene riportato, in solitudine e dimenticata. Di lei restano i quadri, i verbali di un processo per stupro e qualche notizia biografica. Il Palazzo Reale di Milano rende ora omaggio a questa poliedrica autrice ospitando una vasta selezione delle sue opere. In mostra oltre 40 tele, insieme a diversi documenti inediti, tra cui le lettere d’amore autografe scritte dall’artista al gentiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi. Capace di affrontare con grande maestria un’ampia gamma di generi pittorici e di temi, Artemisia sfidò le convenzioni sociali dimostrando coraggio, eclettismo e determinazione. Fu "una delle prime donne", scrisse nel 1947 Anna Banti, "che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i due sessi".
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