IFE Italia

Della presente condizione delle donne e del loro avvenire

Cristina di Belgioioso, 1860
sabato 9 aprile 2011 par ifeitalia

Ho sempre rifuggito dal ragionare dei diritti e dei doveri delle donne nella moderna società, e perché sono convinta che una donna trattando cotal quistione non è mai reputata imparziale e disinteressata, è più ancora perché il cangiare la condizione odierna delle donne presenta difficoltà tali, tali pericoli e danni, che non so qual possa essere a questi adeguato compenso. Oggi però, eccitata da persone autorevoli, (e ch’io rispetto), ad esporre il mio modo di vedere in sì fatta materia, mi risolvo a vincere ogni mia titubanza, ed a confessare candidamente ciò che mi sembra militare si in favore come in opposizione ad una riforma radicale nella condizione delle donne. Che la donna non sia nè moralmente nè intellettualmente inferiore all’uomo, se non per l’azione esercitata dal fisico sul morale e sull’intelletto, o ancora per gli effetti della educazione, è cosa omai generalmente riconosciuta ed ammessa. Ma alcuni si maravigliano però che, a malgrado di tale uguaglianza tra la parte spirituale della donna e quella dell’uomo, la donna sia sempre rimasta e rimanga tuttora in una condizione sociale così inferiore a quella dell’uomo. Fa mestieri ricordare che la società moderna proviene dall’antica, e che l’abito di ricorrere a principii filosofici e morali per isciogliere ogni quesito sociale è cosa del tutto nuova. Per lo passato, ognuno si sforzava di fare ciò che sembrava utile a sé stesso o ad altrui, senza molto curarsi di teorie e di principii astratti ed assoluti. Oggi invece si vogliono applicare principii teorici ed inflessibili per natura, a tutte le variabili circostanze dell’umana vita. Ma s’egli è vero che la società moderna è figlia dell’antica, si deve verificare altresì che la giovane società non sia del tutto spoglia dei pregiudizii della vecchia. La condizione inferiore della donna fu stabilita sin dalla più remota antichità, e quando fu stabilita era fondata sul vero; poichè in quel tempo di assoluta barbarie non si apprezzava né si stimava altro valore che il fisico, e, fisicamente considerata, la donna è indubitatamente e necessariamente inferiore per forza e per durata all’uomo. Basta osservare gli usi e i costumi odierni delle popolazioni barbare tuttora esistenti, per ritrovare la donna considerata e trattata come schiava e come appendice dell’uomo, senza riguardo alcuno alla natura, ai bisogni, ai desiderii, ai diritti di essa. Quanto ai doveri suoi, essi si restringono tutti alla più assoluta e più servile obbedienza ai comandi dell’uomo. Così difatto fu trattata pertutto la donna nell’albeggiare della umana società, e così doveva necessariamente accadere. L’umanità non conosceva altra legge che la violenza, altro valore che la forza per esercitare la violenza. La donna fu sempre assai più debole ( intendo quanto al corpo) dell’uomo. Questi ne dispose dunque a suo capriccio, e la donna, non potendo resistere, chinò il capo, e accettò il giogo. La civiltà spuntò un giorno, e la interminabile impresa del riparare ai torti fatti, alle mostruose ingiustizie commesse dagli uni, e dagli altri sofferte, incominciò. Ma questo albore di civiltà non sorse se non più e più secoli dopo il primo stabilirsi di una società qualunque, ché ancora nel medio evo si stimava la forza fisica superiore ad ogni altra potenza. Nel corso di tanti secoli la donna era stata più o meno schiava dell’uomo; l’uomo che sino dall’origine della società aveva dichiarato essergli la donna inferiore, e dovergli stare sommessa, non si curava di concederle la eguaglianza e la libertà. Poteva forse la donna protestare contro l’usurpazione, e rivendicare i proprii diritti; ma la donna stessa aveva accettata la impostale condizione, vi si era accomodata ed era arrivata a preferirla alla condizione stessa del suo signore e padrone. Rimasta per tanti secoli senza coltura intellettuale, scevra di ogni responsabilità negli affari sì pubblici come famigliari, essa non ambiva una eguaglianza che le avrebbe imposto doveri faticosi e gravi. Questo stato di cose si mantiene tuttora; e quelle poche voci femminili che s’innalzano chiedendo dagli uomini il riconoscimento formale della loro eguaglianza, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. A riconciliare le donne colla loro inferiorità, gli uomini, mossi o da malignità o da naturale istinto, hanno adoperato un artifizio singolare. Dopo di aver persuaso alle donne consistere il colmo della gloria di esse nel piacere al gran numero di loro, nel piacer più fortemente e più lungamente, gli uomini si accinsero a persuaderle che le loro simpatie non si potevano ottenere se non col mostrarsi al tutto diverse da essi. Il vile è sprezzato, scornato, perché dall’uomo si richiede il coraggio; ma questa virtù non è permessa alla donna che ricerca l’ammirazione dell’uomo. I sapienti, gli scienziati, i poeti, gli uomini di Stato, ec. godono dell’universale rispetto, mentre l’ignorante e l’ozioso sono derisi e tenuti in nessun conto. Ma dalla donna si richiede espressamente la più perfetta ignoranza: e chi non conosce i ridicoli soprannomi apposti alle donne colte, il deplorabile effetto di un bel dito macchiato d’inchiostro ec. ec.? Gli uomini persuasero le donne che la loro ammirazione, il loro affetto era a prezzo della loro inferiorità intellettuale, e le donne hanno così creduto, e ve n’hanno di colte che nascondono la loro coltura pel timore di essere annoverate fra le donne superiori, le pedanti, ed altre simili abbominazioni. Il maggior danno che risultò da tanto inganno, si è, a parer mio, il carattere fittizio, di cui le donne si sono rivestite per piacere agli uomini. Il naturale delle donne è intieramente frainteso e falsificato. Così la donna, per la squisita sensibilità del suo sistema nervoso, è più pronta dell’uomo all’eccitamento di certe passioni, come sarebbe l’entusiasmo, e ad un eccessivo disprezzo d’ogni pericolo personale. Un gran numero di donne sono capaci di atti straordinarii di coraggio. Eppure non sono ancora molti anni ch’esse arrossivano del loro coraggio, lo nascondevano, lo negavano, e si rivestivano di tutte le apparenze della paura e della viltà, mandando acute grida se minacciate del minimo pericolo, se un cavallo drizzava le orecchie, se un soffio di vento increspava l’onda marina sotto la loro barca, ad un romore improvviso, se tuonava o lampeggiava, e ad ogni apparente minaccia della sorte. Perché ciò? Perché erano state avvertite che agli uomini piaceva la donna debole, bisognosa del loro sostegno, e che nulla era loro più antipatico del coraggio e della forza femminile. Le donne di qualche ingegno si appropriano facilmente e prontamente qualsiasi nozione che ad esse venga presentata. Eppure, quante volte avrete udito queste stesse donne dichiararsi del tutto inette ai più facili studii, quando codesti sieno (e non so perché) tenuti per particolarmente accomodati alla natura del virile ingegno. Supponiamo, a cagione di esempio, gli studii matematici, comprendendo in essi anche l’aritmetica, e ricercando le nostre memorie troveremo di avere udito più e più volte buon numero di donne anco fornite di non mediocre intelletto, affermare la loro incapacità a qualsiasi calcolo, e la loro direi quasi morbosa avversione a tutto ciò che sa di cifre numeriche, incominciando dalle quattro prime operazioni dell’aritmetica. E tutto ciò perché gli uomini hanno persuaso alle donne che tali studii, i quali sono per altro il più salutare esercizio dell’intelletto, furono ad essi soli destinati, e macchierebbero indelebilmente la vaghezza e le grazie fémminili. Ma per tornare all’argomento che testè toccai, dirò ancora che la leggerezza, la incostanza, la volubilità e la pieghevolezza delle donne è diventata proverbiale, e che nessuno si sognerebbe di contrastare e di discutere un così vecchio assioma. Tutti lo accettano, e nessuno lo esamina. Eppure tengo per certo, essere la donna la creatura più tenace, la più costante, la più irremovibile nei suoi propositi. La donna ha consagrato tutte le sue forze, al gran fine di piacere, e di essere amata. Il suo stato presente nella società è il più idoneo ad ottenere quel risultato, e perciò la grandissima maggioranza di esse non vuole assolutamente cangiarlo. Sin qui non accennai se non ad ostacoli, che, qualora si potessero rimovere, ciò potrebbe esser fatto senza scrupoli né rimorsi, poiché i motivi sin qui addotti, come quelli che trattengono le donne nella loro sociale inferiorità e soggezione, sebbene non meritevoli di condanna, non sono però tali che il legislatore e il filosofo debbano arrestarsi prima di combatterli e di vincerli. Ma pur troppo ve ne hanno anco di questi. La società si è formata sulla base della supposta inferiorità delle donne. Allontanate, per volontà dell’uomo, da ogni studio che non si riferisca esclusivamente e direttamente alla immaginazione, come le arti dette belle, cioè la musica, la pittura, il ricamo, gli adornamenti della persona ec. ec., e da ogni participazione agli affari della società, le donne rimasero confinate fra le mura delle loro case, ove il maggior numero di esse seppe trovare un pascolo alla propria operosità, rendendo gradito al padrone della casa l’abitarla, e sgravandolo intieramente di quelle cure ch’egli giudicò meschine, noiose ed inferiori di troppo alla sua grandezza. La natura cooperò non poco a questo ripartimento delle cure domestiche. Per sua immutabile legge, la donna porta nel proprio seno i figli, li mette al mondo, dà loro il suo latte, e stringe con essi un legame di così tenero affetto, che all’uomo, sebben padre, sembra impossibile. Il cuore dell’uomo non si apre guari all’affetto paterno, prima che il figlio non abbia incominciato a svolgere il proprio intelletto. Ma le grida del bambino nel primo periodo della sua infanzia, gli incomodi inerenti a quella età, i pericoli che sempre lo minacciano, la dipendenza assoluta del bambino dalle cure di chi gli sta d’intorno, gli danno tedio e disgusto, mentre il cuor della madre vi si affeziona sempre più, per quei medesimi motivi che ne allontanano il padre. Questo è uno stato di cose, a cui si può difficilmente toccare. La esistenza della madre è assorta nell’amore della prole, e chi volesse sgravarla di quelle faticose e moleste cure, le apparirebbe come nemico piuttosto che liberatore. Che avverrebbe della famiglia così costituita, se la donna fosse iniziata agli studii virili, se dividesse coll’uomo le cure pubbliche, sociali, e letterarie? A ciò si risponde, che tutte le donne non sono capaci di uno svolgimento intellettuale pari a quello dell’uomo; che per quelle soltanto che fossero riconosciute idonee alla vita intellettuale, si richiederebbe la libertà di adoperare le forze che il cielo ha loro compartite. Ma come si giudicherà la capacità e la competenza delle donne? Chi ne sarebbe giudice illuminato e imparziale ? Si faranno esami ? Quando e da chi? Sarà necessario di dare a tutte le giovinette una coltura superiore, di iniziarle agli studii detti virili per misurare le capacità loro; poi converrà esaminarle di nuovo come si esaminano ora i giovinetti all’uscire dalle scuole preparatorie, e ad un dipresso alla medesima età, cioè dai diciassette ai venti o vent’un anno. Ma, nei nostri climi, molte giovinette sono mogli e madri prima di esser giunte al loro ventesimo anno. Crediam noi che i mariti di queste permetteranno alle loro spose di proseguire gli studii incominciati, di presentarsi ad un pubblico esame (un esame a porte chiuse sarebbe ancor meno tollerato), ed aspetteranno essi pazientemente che gli esaminatori ed i giudici dichiarino che quelle mogli appartengono a loro come per lo passato, o appartengono alla società e a se medesime? Tanta pazienza non s’incontrerà di frequente nei mariti, e le donne preparate a procurarsi una dichiarazione di eguaglianza intellettuale, terranno i mariti, che all’ultima ora della prova si frapporranno tra di esse ed il compimento del loro sogno di gloria e di indipendenza, come altrettanti tiranni ingiusti ed egoisti. Aggiungo un’altra considerazione. Se le donne di mente inferiore sono le sole destinate alle cure domestiche, coniugali e materne, chi le rispetterà? Come si rispetteranno esse medesime? Come rispetteranno quelli oscuri, ma sagrosanti doveri che son loro imposti quasi come una impronta disonorante, come un castigo, o per lo meno una prova della loro incapacità ed inferiorità? Da qualunque parte io mi volga per trovare una via di riformare radicalmente la odierna condizione delle donne, scorgo difficoltà così moltiplici, così varie e così gravi, che quantunque codesta condizione mi sembri un avanzo della passata barbarie, e un indizio che di questa barbarie non siamo ancora intieramente liberi, non saprei mai alzare la voce per chiederne la riforma. Eppure la sorte toccata alle donne non è punto felice, e, che è ancor più doloroso, la presente loro condizione si oppone a qualsiasi svolgimento delle loro potenze intellettuali. I beni che fanno lieta la gioventù della donna, svaniscono cogli anni e la lasciano, all’appressarsi della vecchiaia, solitaria e senza conforto. Delicata per natura, la donna presto affaticata dalle gravidanze, dai parti, dalle infermità che a questi succedono, e dalle domestiche cure, perde di buon’ora le attrattive che la resero un tempo cara al marito. Questi da lei si allontana, o per cercare nuovi piaceri, o per trovare un pascolo alla propria intelligenza maturata o assodata dagli anni. La moglie derelitta troverà ella forse nei figli il conforto e la compagnia che vanno diventandole ogni dì più preziosi e più necessarii ? Rade volte. Le figlie prendono marito, entrano in una nuova famiglia ove debbono rimanere sino al termine della vita, diventano anch’esse madri, e concentrano i loro affetti nei nuovi oggetti lor presentati dalla natura e da Dio. La madre è diventata una persona secondaria, amata si, ma come parte del passato, e senza ingerenza in un futuro che si manifesterà probabilmente sulla di lei tomba. I figli, che nella infanzia non conobbero altra protezione che la materna, si volgono al padre tosto che hanno intesa e conosciuta la subordinata condizione della madre. Appena mossero il primo passo nella via dello studio, subito impararono a compassionare e forse anco a sprezzare la ignoranza della madre. Essi sono esciti dalla sfera di lei; aspirano a più elevate regioni, e prima ancora che vi giungano, ivi hanno inalzato i loro desiderii, i loro affetti. Alla madre che cosa rimane? I figli, se non sono snaturati, l’amano tuttora; rispettano in lei la fedeltà a certi doveri che essi tengono per obbligatorii nelle donne, ma non per sé che appartengono ad una classe di esseri superiori. Fortunatamente, di rado avviene che la donna intenda e pienamente apprezzi la umiliazione di quell’affetto; ma un indefinito senso di diffidenza e di timidità si mesce all’immenso amore ch’essa conserva ai figli, e lo amareggia. Essa pure tiene i figli nati di lei come esseri superiori, e li rispetta come ha rispettato il padre loro. Ma la perfetta fiducia, che forma in gran parte la piacevolezza della convivenza, è svanita interamente né più ritorna, tranne però quando troppo crudeli disgrazie vengono a piombare sui figli, e loro insegnano ad apprezzare la immutabile divozione di quel cuore materno, che nulla mai può chiudere o raffreddare, né abbandono, né mal dissimulato disprezzo, né colpa, né meritata condanna. Ma gode forse la madre di quel ritorno di fiducia e di amore, procurato da immensi dolori? No certo, ed essa darebbe assai più dei pochi giorni di vita che le rimangono per rivedere il figlio freddo ed indifferente, ma felice. Tutte le gioie che colorano la gioventù della donna, si sono spente col progredire degli anni. La salute e la bellezza l’abbandonano prima d’ogni altra cosa; l’amore del marito le segue, sebbene egli le serbi una certa amicizia che non vale a compensarla del perduto amore, della perduta ammirazione. I figli si scostano da essa che gli adora tuttavia. Incomincia però a temerli, e ad arrossire della propria inferiorità. La società più non le abbada, se non forse per farla segno ai suoi spensierati motteggi. Che cosa rimane alla donna invecchiata? Qual meraviglia se essa afferra con disperato sforzo quell’ombra della passata bellezza, se tenta difendersi contro l’età, se nulla trascura per conservare almeno l’aspetto della gioventù che è irreparabilmente sepolta negli anni? Come può essa rassegnarsi alla vecchiaia, se la vecchiaia le invola tutto ciò che la rese felice un giorno? La condizione della donna non è tollerabile se non nella gioventù. Gli uomini che decisero della di lei sorte, non mirarono che alla donna giovane; la età matura di lei, né la vecchiaia non furono considerate né a queste si provvide. Quando la donna non procura più all’uomo né piaceri né divertimenti, a che pro occuparsene? Havvi però un rifugio che rimane aperto alla donna di età, e verso il quale quasi tutte si precipitano ad occhi chiusi; la divozione, ed i conforti che questa prodiga alle infelici, sarebbero in vero un dono celeste, se il clero cattolico fosse estraneo alle umane passioni, agli interessi di casta. Pur troppo i sacerdoti che operano soltanto per l’idea della vita futura sono in piccol numero, e una gran parte del clero cattolico adopera la religione per ottenere ricchezza ed autorità su questa terra. La donna giunta al tempo che non può sperar conforto se non nella divozione, abbandona la direzione della propria coscienza non al più degno tra i ministri degli altari, ma, credendoli tutti specialmente ed unicamente ispirati da Dio, sceglie quello, le cui parole, la voce, i modi e la fisionomia, le vanno più a genio e le toccano il cuore. Questo divien tosto l’assoluto signore di quell’anima torturata e timorosa. E la consola difatto; le promette per la vita futura tutte le felicità che l’abbandonarono in terra; ma si fa ad un tempo svelare tutti i dolori domestici, le abitudini, le opinioni, la condotta del marito e dei figli, e se queste sono a lui avverse, insegna alla donna a giudicarle, biasimarle, detestarle, e le impone l’obbligo di ricondurre e i figli e il marito a più sano pensare. Allora si vedrà quella donna stessa, che sino a quel momento ha costantemente accettata la nozione della propria inferiorità verso il marito ed i figli, alzare sulla loro faccia lo stendardo della ribellione, giudicarli, condannarli e pretendere d’impor loro le sue proprie opinioni; e figli e mariti si allontanano vieppiù dalla madre e dalla moglie, la beffeggiano, e stringendosi nelle spalle, attribuiscono tanta trasformazione alla sua vera cagione, e frequentano sempre meno la propria casa, dichiarandosi incapaci di sostenere le noiose esortazioni di una donna di poco cervello interamente dominata dai preti. Per questa porta entra la discordia sotto al tetto famigliare, e ne fugge quella qualsiasi pace, che la donna vi aveva per lo passato mantenuta colla umiltà, colla pazienza e con la cieca obbedienza al marito. L’ultima terrena felicità che ancora le rimaneva, le sfugge, ed il suo direttore spirituale se ne impadronisce più fortemente che per lo passato. Non ho parlato sin qui che delle donne oneste e virtuose che, sorrette dall’amore del dovere, e da una sincera e semplice fede religiosa, concentrano i loro affetti nella famiglia, accettano senza lagnarsi la loro condizione sociale, e rimangono senza macchia e senza rimorsi. Ma se tali donne non riescono ad ottenere una felicità e una pace durevole, che diremo dell’altre? Delle donne leggiere, imprudenti o colpevoli, si suoi dire che se soffrono, hanno formato da sé stesse la loro infelicità. Non nego il fatto, ma anche per esse la società potrebbe e dovrebbe provvedere; poiché non sono colpevoli di tali delitti, che alla società inorridita non rimanga altro da fare se non infligger loro un terribile castigo. Se alle nature femminili più ardenti, più indomite, più abborrenti del giogo, si offrissero alimenti oltre la tranquilla soggezione della vita di famiglia; se se ne scemassero le tentazioni, coll’aprir loro altri orizzonti oltre quello dell’amore, altri fini da conseguire oltre quello della bellezza e dell’ammirazione, si potrebbero togliere alla perenne e pericolosa ambizione di piacere, e sarebbero più numerose le donne benemerite della società. La donna, nella presente sua condizione, ben di rado ottiene un grado moderato di felicità, e se pure l’ottiene, più di rado ancora lo conserva, quando però non perda la vita prima di aver perduto la gioventù e la bellezza. Educata a piacere all’uomo e ad essere amata con passione da lui, non è per lo più consultata sulla scelta del compagno e signore, a cui l’amore di lei sarà esclusivamente dovuto per la intiera vita di entrambi: si valutano i beni di fortuna, il nome, il grado, lo stato sociale di colui che la chiede in isposa, e nulla più, sotto il puerile pretesto che dopo pochi mesi o pochi anni di matrimonio le attrattive della persona non si osservano più, e che i soli elementi durevoli di felicità, sono le ricchezze e le soddisfazioni dell’orgoglio. La giovinetta però che aspettava, cupida e timorosa, il futuro dispensatore di ogni sua gioia, l’oggetto a cui ella doveva consacrare tutto il suo cuore, tutti i suoi affetti e la intera sua vita, si trova subitamente legata ad un uomo che non le ispira né amore, né fiducia, ma piuttosto timore e avversione. Ciò accade troppo di frequente, e tali unioni portano non di rado frutti conformi all’origine loro. Non di rado pure la donna scaduta da ogni desiderio e da ogni speranza, si rassoda nel coraggio della rassegnazione: impone a sé stessa di accettare sinceramente i propri doveri, e di trovare una sufficiente felicità nell’adempimento di questi. Cosiffatti sforzi e trionfi della volontà sull’istinto sostengono la donna nella vita, le costituiscono una tal quale felicità ma assai diversa dalla felicità spontanea che dorava i sogni della giovinetta, e, diciamolo francamente, non è quella vera felicità che rasserena lo sguardo, affretta i battiti del cuore, colora le guancie e atteggia le labbra al sorriso. E’ un contento freddo e tranquillo, nato da una vittoriosa rassegnazione, e dalla soddisfazione della coscienza. E una bella cosa, ma non è la felicità. La donna, reputata tanto debole ed inferiore all’uomo per natura, ha compito in silenzio il più eroico sagrifizio, ha fatto il più urgente sforzo, e conseguita la più mirabile vittoria che possa conseguire creatura umana. Ma v’ha giustizia, v’ha pietà nell’imporre alla donna tali prove, da cui essa non può uscire, se non col sagrifizio di ogni terrena gioia, o con quello del suo buon nome, senza rinunziare alla felicità o alla virtù, misera o colpevole? Non sarebbe ormai tempo che la società così ansiosa di abbattere tutte le tirannidi, e di stendere la mano a tutti gli oppressi (del che la benedico e la lodo) si ricordasse che in ogni casa, in ogni famiglia, v’hanno vittime più o meno rassegnate, assorte nel procurare la maggior dose di felicità possibile a chi le condannava ad una vita di dipendenza e di sagrifizio, parecchie delle quali comprerebbero lietamente a così caro prezzo il bene di essere costantemente amate dall’oggetto, a cui si consacrarono, e questo inadequato compenso poche l’ottengono ? Non è forse tempo che le compagne, le madri dei signori del creato, sieno tenute seriamente come creature ragionevoli, dotate di potenze intellettuali forse speciali, ma non necessariamente inferiori a quelle dell’uomo? Non so se m’inganni, ma sembrami che la società (e quando dico la società, intendo parlare quasi esclusivamente degli uomini) non sia più così aliena come per lo passato dal muovere un primo passo verso la giustizia quanto alle donne. Già si ammettono le eccezioni alla radicale inferiorità femminile, e quelle donne che formano tali eccezioni, non sono sempre viste di mal occhio dagli uomini, che anzi loro dimostrano un certo rispetto, una certa deferenza. Facciano in modo le donne, che queste eccezioni diventino più numerose, sinché il rispetto tributato ad alcune di esse ridondi e si estenda gradatamente sopra tutto il sesso femminile. Quelle donne che già emergono dalla moltitudine, mantengano la stima acquistata con serietà senza ostentazione, evitando le stravaganze, gli slanci febbrili, che a torto si attribuiscono alla intemperanza del genio; facciano intendere alla società che una donna di coltivato ingegno non si crede per ciò sciolta dall’obbligo di essere buona moglie e buona madre, di accudire alla propria casa, agl’interessi del marito e della famiglia, ed i pregiudizii contro le donne operose e che sanno, andranno a poco a poco dileguandosi. Mi si dirà che le donne di svegliato ingegno non possono adoperare, né tampoco far nota alla società la mente loro, tutte le vie essendo lor chiuse ed interdette. Vi sono difatti condizioni sociali, in cui la donna, perché donna, non è ammessa oggidi: per esempio la magistratura e la milizia di terra e di mare. La magistratura richiede studii lunghissimi, gravi e piuttosto noiosi, a cui nessuna donna ch’io sappia si è per anco accinta, e la milizia di terra e di mare vuole una forza, una destrezza ed una energica operosità, che mal si accorda con gli uffici affidati dalla natura alle donne. Ma di fronte a queste due vie chiuse di fatto alle donne, quante altre rimangono aperte! La istruzione pubblica, il vastissimo campo delle lettere, la storia, la filosofia, ed in generale tutte le scienze che esistono pel loro intrinseco pregio, non valutando anche la pratica applicazione ai bisogni quotidiani della vita sociale e politica. Mi si risponde che le scuole ove l’uomo attinge il sapere son chiuse alle donne, e che se qualche giovinetta di famiglia opulenta può acquistare qualche sapere con maestri privati e libri comperati, sempre rimane il più gran numero delle giovinette che è escluso dalle scuole pubbliche più elevate; né potendo per gli scarsi mezzi procurarsi la istruzione privata, sono costrette di rinunziare a quel sapere che è tuttora esclusivamente serbato all’uomo, e che forma la base della di lui superiorità ed eccellenza. Di ciò non convengo. Credo invece che le giovinette inclinate agli studii serii ed elevati, potrebbero penetrare nelle aule dei licei e dei ginnasi, qualora vi fossero chiamate da un sincero desiderio d’istruzione, e qualora vi osservassero un tranquillo e modesto contegno; e credo che all’escire da quelle scuole, preparate essendo a sostenere degnamente gli esami stessi che sono imposti ai giovani, non incontrerebbero poscia ostacolo alcuno alla frequentazione dei corsi pubblici che compongono la istruzione universitaria. Non dico che la prima giovinetta posta a tali prove potesse vincerle senza essere dotata di molto coraggio, di sangue freddo, di una invincibile perseveranza e di forze intellettuali di primo ordine; ma nessuna conquista può farsi senza un conquistatore, e i conquistatori, a qualsiasi tempo ed a qualsiasi sesso appartengano, sono sempre creature eccezionali. La prima giovinetta che picchiasse alla porta delle scuole maschili, ecciterebbe, non v’ha dubbio, le risa degli studenti e i sospetti dei professori. E che perciò ? Tacerebbero le risa e svanirebbero i sospetti, quando la giovinetta studiasse daddovero, quando non si presentasse se non accompagnata da persona rispettabile per la età e pei costumi, quando si sforzasse di sottrarsi agli sguardi degli studenti, quando insomma facesse a tutti chiaro che non venne per fare una cosa strana, ma per coltivare il proprio intelletto. Credo che l’impresa sarebbe assai meno ardua che non pare, e che quando fosse evidente che le intenzioni dei parenti e della giovinetta stessa sono le espresse, e nulla ascondono di misterioso, il tentativo incontrerebbe favore, e la giovinetta non sarebbe dalle scuole respinta, ma ammessa, aiutata e protetta. Quando poi la difficile prova ottenesse un discreto successo, sarebbe tosto da altre giovinette ripetuta, sinché fatto a tutti evidente che le donne non si compiacciono più nella ignoranza antica e fanno lodevoli sforzi per uscirne, si aprirebbero scuole femminili dove le donne riceverebbero la istruzione medesima che sino ad oggi è privilegio degli uomini, senza che la convivenza fra gli studenti di diverso sesso potesse dar motivo a scandali o diffidenza. Ma a qual’uopo si darebbe alle donne un’istruzione virile se, instrutte che sieno, debbono rimanere a loro chiuse tutte le vie per adoperare ed applicare il sapere acquistato, se ogni carriera scientifica o letteraria è a loro vietata? Così mi si risponde, ed io ripeto che le cose non istanno in questi termini. L’Italia nostra non vanta ella forse nel passato molte donne illustri per ingegno e per sapere, alcune delle quali occuparono cattedre scientifiche nelle pubbliche università, e specialmente in quella di Bologna ? La nostra Agnesi non fu ella reputata da tutti di gran valore nelle scienze matematiche, e non ricevette forse onori tali da destare l’emulazione se non la rivalità degli uomini del suo tempo? Quante delle nostre donne furono ammesse nelle accademie scientifiche e letterarie degli scorsi secoli? E perché l’età nostra si mostrerebbe meno liberale di quelle? Poche settimane sono in Inghilterra non fu forse addottorata in medicina una donna che certamente aveva compito gli studi, e sostenuto con lode gli esami stessi che sono imposti agli studenti prima di conseguire il diploma di medico? Qui non mi si dirà che i pregiudizii popolari renderanno il diploma della donna inglese inutile, e si opporranno all’esercizio della sua professione; poiché è noto a tutti che le donne, anco le più ignoranti, mostrano sovente una strana rivalità verso i medici, sono molte volte a loro preferite dai malati, ed i suggerimenti di esse divotamente seguiti, a malgrado della energica opposizione del medico legittimo. Mentre scrivo, un’altra giovane inglese sta tentando la prova già sostenuta dalla prima, e risponde agli esaminatori che debbono giudicare della sua idoneità all’esercizio della medicina. Quasi in tutti i paesi civili molte eccezioni alla generale insufficienza della donna nelle cose della mente furono accettate dalla società; eppure queste numerose eccezioni non hanno ancora infievolita la regola, o, per meglio dire, la massima della inferiorità femminile. Perché ciò? Il perché si scorge facilmente. Le donne che s’illustrarono nelle scienze, nelle lettere o nelle arti, hanno obbedito all’istinto loro, hanno soddisfatto ai bisogni della loro mente, hanno seguito la imperiosa chiamata della spirituale loro natura; ma senza prefiggersi altro fine oltre queste soddisfazioni. Una donna ebbe l’onore di occupare una cattedra universitaria; ma il caso non si ripeteva se non dopo lunghissimo intervallo di tempo, o mai. Quella donna aveva aperto una porta alle altre donne; ma nessuna pensò di approfittarne, e la porta si richiuse gradatamente da sé, e per modo che chi le getta uno sguardo nel passarvi davanti, si persuade che sia serrata a chiavistelli e catenacci, e che l’aprirla sia cosa impossibile. Le donne stesse che negli ultimi tempi hanno chiesto ciò che chiamano la propria emancipazione, hanno, a parer mio, resa più che mai difficile la soddisfazione dei loro desiderii. Tanto in Francia quanto in Italia, gli uomini assennati e molte donne hanno ricusato di ascoltare tali domande, e si sono sdegnati non solo contro le autrici di esse, ma contro la cosa domandata eziandio. Si chiedono riforme radicali e pronte, provvedimenti e leggi che stranamente disturberebbero la pace delle famiglie, e che produrrebbero nella società una deplorabile confusione. Una delle tendenze che si riscontrano nel carattere di presso che tutte le donne, è di accendersi di passione sia pro, sia contro le persone e le cose che si prendono a cuore, e di giudicarle colla immaginazione piuttosto elle con la ragione. Che cosa avverrebbe della crescente generazione, se un gran numero di madri di famiglia sciolte per legge da ogni obbedienza al marito e da tutti i doveri, i quali sin qui loro incombevano, si accendessero subitamente di passione per quelli studi virili che potessero aprir loro la via ai pubblici officii, alle pubbliche carriere? Chi si sostituirebbe alla madre nelle cure e nella educazione dei figli, mentre la madre educherebbe sé stessa a vita diversa? Chi si sostituirebbe alla moglie nella fiducia del marito, nel governo della casa? A me tali riforme appaiono di una impossibile esecuzione. Possono essere tentate, quando si trovi un governo amico di qualsiasi novità, sufficientemente sicuro di sé per non curarsi della pubblica opinione, e abbastanza audace da non lasciarsi trattenere da considerazioni gravissime che non sieno apparentemente dirette contro il proposito suo; ma tengo per certo che tal esperimento farebbe indietreggiare per molti anni la soddisfazione dei desiderii di quelle donne che oggi chiedono la emancipazione del nostro sesso. La parola stessa, tante volte proferita in quelle richieste di donna libera ha, e non senza ragione, un non so che di antipatico e di disgustoso che eccita le risa degli uomini, e lo sdegno di molte donne. Sia libera la donna d’istruirsi solidamente e non puerilmente; sia libera di avere il giusto compenso delle sue fatiche, il premio del suo buon successo, ma meglio è il non chiedere altre libertà. E poiché la irresistibile natura della donna e dell’uomo lega l’uno all’altra per l’intiera lor vita, riconosciamo e confessiamo che l’esercizio di due libere volontà egualmente tenaci ed egualmente legittime, renderebbe sovente intollerabile il coniugale consorzio: e poiché una di queste due volontà deve essere sottoposta all’altra, lasciamo su questo punto andare le cose come andarono sin qui, e non aggiungiamo con una superflua esigenza difficoltà gravi alle gravissime che già si oppongono all’emendamento della condizione femminile. Del resto, la donna è bensì schiava degli ordinamenti sociali, ma non è, o in pochi casi, della volontà del marito. Mettiamo da parte le declamazioni. La condizione della donna è al di sotto del valor suo intellettuale e morale, ed in quella la donna non trova, se non in casi eccezionali, una durevole felicità. Questa condizione è ad un circa la medesima che le fu imposta nei primi albori della civile società; e siccome ogni cosa cammina, progredisce e si trasforma quaggiù, la immobilità della condizione femminile è opposta alla natura delle cose e della umana famiglia. Ma tante cose posano sopra codesta condizione femminile elle non si può distruggerla ad un tratto, senza recare immensi danni alla società. Conviene invece camminare adagio, togliere ad una ad una le pietre che possono essere tolte all’odierno edilizio sociale, senza cagionarne l’intera rovina; conviene anzi porvi saldi puntelli affine di mantenerlo ritto a mano a mano che gli son tolte le pietre onde si compone, e che si adoprano alla erezione di un nuovo edilizio, in cui i bisogni di tutti e di tutte trovino un’equa soddisfazione. Le donne che ambiscono un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e di annegazione, contentarsi di preparare il suolo, di seminarlo, ma non pretendere di raccorne la messe. La presente generazione non può se non preparare giorni migliori alle generazioni future, e di ciò deve andar contenta: imperocchè le riforme fatte in fretta hanno quasi sempre infelice successo, e distolgono i più animosi dal ripeterle. Egli è vero che i torti, di cui si lagnano alcune donne, esistono da molti secoli, e che il riformarli può difficilmente reputarsi atto intempestivo; ma è vero altresì che la esistenza di questi torti, e la possibilità di mettervi fine, non furono conosciute che assai di recente. Un grandissimo numero di quelle donne che si vorrebbero liberare dal giogo, respingono sdegnate una libertà che non chiesero mai, e il cui nome sembra loro sinonimo di vizio e di libertinaggio. A chi si appoggeranno le riformatrici per ottenere un intento così frainteso ed abborrito dai più? La insistenza loro rende lo stato delle cose più che mai difficile, e suscita nuovi ostacoli al conseguimento dei loro voti. Io vorrei che si contentassero di dimostrare coll’evidenza del loro ingegno e colla moderazione delle loro pretese, che la mente femminile non è naturalmente e necessariamente inferiore alla virile, e che la donna non si lascia sempre trascinare dalla passione, ma sa regolare e temperare i proprii desiderii, ed accomodarsi alle circostanze ed ai tempi; e sono persuasa che seguendo questo mio consiglio giungerebbero più presto alla meta. Mi si permetta un’altra osservazione. Le donne esercitano ed esercitarono da gran tempo un’azione potentissima sopra tutti i negozi o pubblici o privati che incombono all’uomo; ma la loro azione è, per così dire, subdola, nascosta, dissimulata. Per non offendere l’orgoglio e la vanità dell’uomo, la donna si cela dietro di lui ch’essa vuol condurre, lo muove a suo capriccio lusingandone la vanità; gl’ispira, ma non gli suggerisce i pensieri che la dominano, e riesce sovente a persuadere il proprio signore, che i pensieri così artifiziosamente presentatigli sono frutto del suo trascendente ingegno; cosicché lo vedremo fors’anco sforzarsi di renderli accessibili al debole intelletto della donna, da cui li riceve, e non di rado la donna lo confermerà nell’errore, mostrandosi maravigliata per l’altezza del virile concetto, grata alla pietosa di lui condiscendenza, ed ostenterà i segni di una mentale stanchezza dovuta agli sforzi fatti per partecipare a quei pensieri virili, troppo superiori alla sua potenza. Evvi alcuno che possa approvare tali artifizii ? E qual è l’uomo che dopo di essere stato così aggirato, venendo a scoprire l’inganno, non ne rimanga fieramente, e con ragione, sdegnato? Siffatte relazioni fra gli uomini e le donne che sono frequentissime, sono uno smacco alle più necessarie delle umane virtù, alla veracità, alla probità, alla lealtà. Eppure asserirei senza esitare che fra dieci donne, le quali esercitano una qualsiasi influenza oltre la sfera loro, ve ne sono almeno otto che la ottennero nel modo da me descritto. La nostra Italia sta ora componendosi con gravi stenti, e vincendo potenti ostacoli. La nazione italiana non teme di separarsi dalle cose passate, e le novità di qualsiasi natura non la spaventano solo perché son novità: ma in questo momento ogni cura che non si riferisca direttamente al suo ordinamento e assetto politico, ogni riforma che non tenda a tutelarla da un imminente pericolo, deve essere rimandata a giorni più securi e tranquilli. I nostri legislatori, coloro che rappresentano la nazione italiana fatta libera, non debbono venir distratti dal gravissimo loro incarico; ma l’opera che a mio parere deve precedere la giustizia, a cui anelano alcune donne, può incominciarsi oggi. Si educhino e s’istruiscano senza ostentazione quelle donne che per la natura del loro ingegno, e per il loro stato sentono il bisogno di una intellettuale coltura e possono procacciarsela. Anche in mezzo ai gravi pensieri che oggi travagliano la italiana società, il lento ma continuo progresso della mente femminile non rimarrà inosservato, e forse prima ch’io non credo le donne otterranno spontaneamente dagli uomini la dovuta giustizia. Forse io m’inganno, forse mi acceca la parzialità pel mio paese, ma parmi di scorgere, in un avvenire non so quanto lontano, l’Italia che scioglie tutti i problemi sociali, e li scioglie con prudente, ma istancabile coraggio, vittoriosa nemica di tutti i pregiudizi, disprezzatrice costante di quelle ragioni individuali che si oppongono alle legittime delle moltitudini Parmi vedere negli uomini che possono oramai ambire il reggimento della nazione, che la rappresentano o che si dedicano alla difesa ed al servizio del paese, parmi, dico, vedere scemato il desiderio di mantenersi, mediante la soggezione e l’avvilimento della donna, la dispotica loro autorità sulla casa e sulla famiglia. Parmi vederli presi da maraviglia accorgendosi che le donne, educate ed istruite dagli stessi maestri loro e negli studii stessi, non rinunziano perciò ad esser donne, a vivere della vita della donna, ad assumerne e ad adempierne i doveri, non assordano la società coll’entusiastiche lodi del loro ingegno, esaltando la propria eccellenza, chiedendo diritti, disprezzando doveri, e desiderando strane riforme. Parmi vederli più maravigliati ancora, quando scoprano che la donna colta sa rendersi compagna gradita anche dopo la partenza della bellezza e della gioventù; che le puerili dispute, i frivoli diletti le sono diventati assai meno necessarii di prima; che la sua vanità più non si offende colla solita facilità; che la noia e la malinconia senza motivo non sono più il flagello della sua vita, e ch’essa può dare la propria fiducia ad un sacerdote che le sembri meritarla, senza farlo padrone dei secreti domestici, né ricevere da lui le istruzioni da comunicarsi al marito ed ai figli, né i rimproveri e le condanne, quando gli uni e gli altri le ricusino, né vogliano regolarsi conformemente a quelle. Parmi vedere nel glorioso avvenire della mia patria le famiglie in miglior modo assestate e dirette, la educazione della prole più saggia e più previdente, le amicizie pericolose scemate di numero, dappoiché mariti e mogli saranno gli uni per gli altri i più sicuri, sinceri e fedeli amici che si possano desiderare. Vedo cessati i contrasti, le usurpazioni, le recriminazioni; cessato il bisogno della dissimulazione, e la tendenza alla falsità, coll’aver posto sopra più salde basi la domestica felicità, e coll’avere permesso alla donna d’innalzarsi alla pari dell’uomo. Vedo la società arricchita dell’ingegno, dei consigli e dell’opera femminile, in quelle faccende almeno che richiedono prontezza di concepimento e di criterio, umanità, e disposizione al sagrificio. Vedo che alla mia patria spetteranno le lodi e la gratitudine universale per avere felicemente e saggiamente troncata la quistione del valor femminile, e della condizione che alla donna si compete. Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!

CRISTINA BELGIOJOSO Estratto da "http://it.wikisource.org/wiki/Della..."


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