
Disuguaglianza: un abisso
Mariana Mazzucato è un’ economista. Insegna economia all’Università del Sussex, in Gran Bretagna.
Riceviamo dalla rete e volentieri pubblichiamo.
La crisi finanziaria globale che è cominciata nel 2008 e i cui strascichi si fanno ancora sentire pesantemente, è stata provocata da due fattori. Il primo è l’aumento della disuguaglianza, specialmente negli Usa, che ha costretto le persone a indebitarsi fortemente.
Il secondo fattore è stata la presenza di un settore finanziario deregolamentato, che negli ultimi decenni è cresciuto a ritmi ben maggiori della produzione industriale perché la finanza, per speculare, prestava a se stessa invece che all’industria. Le politiche per il dopo-crisi dovrebbero quindi puntare prioritariamente a ridurre la disuguaglianza e indurre la finanza a coltivare e prestare soldi all’economia reale. Eppure oggi stiamo fallendo miserevolmente su entrambi i fronti.
La disuguaglianza è in aumento. E se le cifre scoraggianti relative agli Stati Uniti sono ben note, l’Italia, per molti aspetti, sta andando peggio del resto dell’Ocse su questo versante. I dati Eurostat mostrano che il 10 per cento più ricco della popolazione italiana guadagna tre volte di più del restante 90 per cento, e mentre nel resto dei Paesi dell’Ocse il reddito dell’1 per cento più povero in percentuale del totale è cresciuto (dall’1,8 al 2,6 per cento), in Italia continua a regredire. Inoltre, anche se fa comodo fingere che tutte le imprese se la passino male, la realtà è che la quota dei profitti sul totale del reddito a livello mondiale è a livelli record; e l’Italia da questo punto di vista è ai primi posti in Europa, con il 45 per cento rispetto a una media Ue del 40. E come dimostra Mario Pianta nel suo libro Nove su Dieci, tutto questo mentre i salari medi per lavoratore italiano sono diminuiti di oltre lo 0,1% in media l’anno per due decenni.
Ma per ridurre la disuguaglianza non basta considerare solo l’efficacia della tassazione redistributiva o elargizioni come il bonus degli 80 euro. È essenziale affrontare anche i problemi più intrinseci di governance aziendale che hanno consentito ai profitti di salire a livelli record, distanziando i salari. È proprio questo punto che ci porta al secondo problema. L’idea che la finanza grande e cattiva debba in qualche modo essere addomesticata per poter far pendere nuovamente la bilancia dal lato della buona vecchia industria non tiene conto di quanto sia diventata malata l’economia reale. L’industria stessa si è finanziarizzata, concentrandosi esageratamente sull’accumulo di liquidità (a livelli record) e/o spendendo per misure, come gli stock buy back, che rafforzano sul breve termine il titolo azionario (e di conseguenza le stock option e le retribuzioni dei top manager), invece di puntare su quelle tipologie di spesa che garantiscono una crescita nel lungo periodo, come gli investimenti in ricerca e sviluppo e in formazione del capitale umano.
È urgente quindi che la politica industriale, che finalmente sta tornando in voga, non si limiti a sostenere certi settori, come l’informatica o le bioscienze, ma chieda alle aziende che operano in questi e in altri settori di partecipare alla riforma necessaria. Invece stiamo assistendo all’esatto contrario: governi che si fanno in quattro per accondiscendere senza fiatare alle richieste delle grandi imprese “per favorire la crescita” e un attacco generalizzato contro i diritti dei lavoratori. Un esempio di quest’ultima tendenza è il modo in cui il governo italiano continua a sostenere che l’impedimento alla crescita in Italia risiede nel livello delle retribuzioni dei lavoratori e che la soluzione stia quindi nel fare di tutto per ridurre il costo del lavoro (la recente riforma Renzi). La realtà è che l’aumento del costo unitario del lavoro è il risultato di un calo della produttività dovuto alla diminuzione degli investimenti privati (e pubblici) in tutte le aree suscettibili di incrementare il capitale umano e l’innovazione.
Un esempio della prima tendenza (il governo ostaggio delle richieste delle imprese) è l’introduzione (purtroppo meno dibattuta) della patent box in Italia per opera del governo Renzi (nel 2013 era stata introdotta nel Regno Unito dal cancelliere dello Scacchiere Osborne). Questa politica, che riduce enormemente la tassazione sul reddito derivante da brevetti, ottiene il risultato di accrescere ancora di più i profitti delle imprese, ma fa poco o nulla per incrementare gli investimenti in innovazione del settore privato (lo scopo dichiarato della misura). I brevetti sono già dei monopoli: i governi non devono intervenire sul reddito che generano (protetto per vent’anni!) ma sulla ricerca che a quei brevetti conduce, specialmente in un Paese come l’Italia, che è fra quelli in cui le imprese spendono meno per ricerca e sviluppo. Invece questa misura ottiene come unico effetto di ridurre gli introiti dello Stato, costringendolo a tagliare su altri fronti per rimanere in linea con gli obbiettivi (dannosi) sul deficit.
Un altro esempio è quell’altra parte della riforma del lavoro di Renzi che riduce le tasse per fondi di private equity, crowdfinancing e fondi di venture capital, come se fossero questi i segreti per finanziare l’innovazione. La verità è che quello che serve alle piccole imprese innovative e in forte crescita sono finanziamenti pazienti, a lungo termine, non il modello sempre più speculativo del venture capital, che punta solo sulla “uscita” (in 3 anni) dall’investimento attraverso un buyout o Opa. Inoltre, la visione errata dei fattori che trainano la crescita ha spinto a portare la durata necessaria per ottenere riduzioni delle aliquote sulle plusvalenze per gli investimenti di private equity da dieci a due anni, incoraggiando molti di questi fondi a focalizzarsi sui rendimenti a breve termine.
Cosa bisognerebbe fare nel 2015? La riforma del settore finanziario, mirata a ricongiungere finanza ed economia reale, dovrà innanzitutto studiare in modo critico i fatti concreti dell’economia reale, e non i miti. I periodi più lunghi di crescita stabile nella maggior parte delle economie si hanno quando le aziende medie e grandi investono i loro profitti nella ricerca di nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Quello di cui c’è bisogno oggi è una finanza impegnata nel lungo termine che aiuti questo processo, sotto forma di banche pubbliche (come la KfW in Germania) o agenzie pubbliche strategiche (come Darpa in Usa o Sitra in Finlandia), e una politica fiscale che favorisca l’approccio a lungo termine, invece di continui tagli delle tasse a beneficio degli speculatori. Solo in questo modo il settore privato troverà il coraggio ed il supporto per investire in innovazione.
Assieme ad una politica fiscale progressiva e non regressiva, è fondamentale anche costruire istituzioni in grado di continuare a negoziare condizioni migliori per i lavoratori, in un periodo in cui i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. I sindacati non sono il problema, sono la risposta: e ovviamente devono diventare il soggetto che più si batte per una crescita trainata dall’innovazione e investimenti invece che per il mantenimento dello status quo.
Finché non metteremo insieme politiche per l’innovazione, riforma del settore finanziario e rafforzamento delle istituzioni in grado di lottare per conto dei lavoratori (la quota del salario del reddito complessivo), continueremo a essere ossessionati dalla necessità di “correggere il settore finanziario”, lasciando l’economia reale malata come prima: più disuguaglianza, tante imprese piccole e deboli e una manciata di imprese grandi e finanziarizzate, che chiedono sempre di più e danno sempre di meno. La ricetta perfetta per il prossimo casinò finanziario e il prossimo crac.
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7.2 Eguaglianza,economia, diritti,welfare
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