IFE Italia

La politica del desiderio

Veronica Gago intervista Raquel Gutiérrez Aguilar.
venerdì 24 giugno 2016

Tratto da : http://comune-info.net/2016/06/la-p...

(...) Raquel Gutiérrez Aguilar, ex militante dell’EGTK (Esercito Guerrigliero Tupac Katari) e attivista nella Guerra dell’Acqua in Bolivia (una delle lotte emblematiche contro il neoliberalismo dell’inizio del nuovo secolo), filosofa e matematica, è promotrice di iniziative autonome in Messico e docente della Benemérita Universidad di Puebla. Autrice di diversi libri su queste esperienze di lotta, che comprendono anche una riflessione femminista sui suoi trascorsi come prigioniera, sta lavorando ora a un progetto di vasto respiro, che, in attesa di diventare il titolo del suo prossimo libro, si può così sintetizzare: Che cos’è fare politica al femminile?

La tua idea di politica al femminile parte da un’altra domanda: che cosa significa avere una propria e autonoma voce propria, in termini politici, vitali, organizzativi?

Avere voce propria significa, per il nostro pensare-dire-fare, non accettare rapporti di tutela o di dipendenza messi a punto dai molteplici luoghi sociali dove si concentra il potere. Significa, anche, non dimenticare in alcun momento, la rete di interdipendenze che continuamente produciamo e viviamo. Partire dalla rete di interdipendenza nella quale siamo e stiamo – un concetto che proviene dall’ecologia politica- è qualcosa di molto diverso da ciò che viene delimitato dal binomio di concetti antinomici dipendenza/indipendenza. Consiste, in primo luogo, nel tener sempre presente che non siamo persone isolate ma che siamo sempre inseriti in insiemi dinamici di legami e rapporti che già esistono e che, allo stesso tempo, produciamo attraverso le nostre azioni quotidiane. In secondo luogo, consiste nell’essere ben consapevoli che i legami nei quali siamo-stiamo, e che pure produciamo e trasformiamo quotidianamente, possono disegnare una vasta gamma di forme diverse.

Per esempio?

Possono assumere la classica forma moderna, gerarchica e alienata, che disconnette le relazioni dirette e separa coloro che fanno parte di una rete di interdipendenze – come dice Silvia Federici, li separa tra di loro e dai loro mezzi di sussistenza – per introdurre mediazioni suscettibili di concentrazione crescente – e qui intendo il denaro o l’energia sociale che si concentra come comando. Oppure possono acquisire nuove forme – che in realtà sono attualizzazioni o rigenerazioni sistematiche di forme di vincolo e legame diretto, faccia a faccia, complesso, plastico, non mediato – o quantomeno non pienamente mediato – da criteri esterni. Questa pratica quotidiana di rigenerazione auto-riflessiva di collettività più o meno auto-regolamentata e che, al suo interno, provvede a sistemare, organizzare e gestire le differenze è, secondo me, il sostegno fondamentale della voce propria. Chiaramente, non posso avere una voce mia, propria, se sto sola, isolata.

Un’autonomia interdipendente, al contrario della moderna fiction dell’indipendenza…

Sì, possiamo avere una voce nostra solamente in mezzo a una trama di collaborazione, di cooperazione e sostegno reciproco. È per questo che per avere una voce propria, autonoma, in termini politici, è necessario poter contare su condizioni minime di autonomia materiale, individuale e collettiva. Ed è sempre per questo che la negazione dell’autonomia politica passa attraverso l’imposizione di condizioni che privano della possibilità di autonomia materiale. Questo è ciò che incoraggia e permette le relazioni di tutela politica. Di questi tempi, questo è un grave problema poiché il mare di precarietà nel quale come società viviamo, porta a negare le condizioni materiali della nostra autonomia politica. La tenaglia si chiude quando, attraverso misure tecnocratiche – statali e private-, la garanzia di determinate e minime condizioni materiali necessarie al sostentamento viene assoggettata e condizionata e questo ci costringe ad accettare la tutela sia come individui che come collettività. In termini classici, sto cercando di esaminare, come si sarà notato, il vecchio binomio sfruttamento/oppressione per poter individuare le sue attuali caratteristiche.

Quali sarebbero?

Credo che attraverso il binomio “spoliazione e tutela” possiamo comprendere una parte centrale di ciò che oggi impedisce l’autonomia politica individuale e collettiva. Pensare alla spoliazione non unicamente come all’”espropriazione” di beni o ricchezze naturali o materiali preventivamente prodotti, ma come a un ventaglio eterogeneo di “spoliazioni molteplici” – come dice Mina Navarro – che ingloba il rapporto di espropriazione nel processo stesso di produzione (del capitale), ma che include nell’analisi anche l’espropriazione di tutta la ricchezza che può essere prodotta attraverso altri legami e relazioni umane. Questa è una chiave molto rilevante per poter sovvertire i classici ambiti dell’analisi. Noi, qui a Puebla, siamo impegnate a tessere gli elementi di una forma della politica che chiamiamo politica al femminile, che consiste nel cercare di comprendere a diversi livelli questo insieme di pratiche di spoliazione e tutela proprio come negazione della capacità umana collettiva di rigenerazione della vita e dei fertili legami sociali che consentono l’autonomia. E scegliamo come punto di partenza il processo di riproduzione materiale e simbolica della vita sociale.

I ritmi aperti dell’America Latina

Cosa significa questo, quando si guarda all’America Latina? Pone altri ritmi e calendari oltre all’idea della fine dei cicli che riguardano i governi?

Comincerò analizzando ciò che intendiamo per “ciclo”. Per riferirmi a questo, a me piace utilizzare metafore che abbiano a che vedere con le onde, con il modo con cui l’acqua del mare si muove senza sosta. Lo fa in base a dei cicli, chiaramente. Però non cicli come quelli che vengono esposti, per esempio, da alcune funzioni della trigonometria: cicli di periodo regolare, riconoscibile, determinabile ecc. Per pensare a quello che oggi sta succedendo in America Latina, dobbiamo pensare a processi dinamici aperti, che diano conto dell’incertezza e che effettivamente presentano aspetti ciclici: sebbene, insisto, non siano cicli definiti e misurabili. Sono piuttosto cicli sempre incerti e sempre aperti. Così, oggi , in tutta l’America Latina – salvo forse l’Ecuador dove la “revolución ciudadana” ha raggiunto livelli di repressione allarmanti – sembra che stia collassando un ciclo di lotte di medio periodo che s’è aperto all’inizio del XXI secolo e che ha avuto due momenti chiaramente riconoscibili: il momento del protagonismo sociale dispiegato – come lo chiama il Colectivo Situaciones – e il tempo della confusione e dell’ambiguità, che è stato il tempo in cui le capacità sociali di recuperare e plasmare sono state espropriate alla società stessa per essere concentrate nello Stato e nelle sue istituzioni. Alla espropriazione o spoliazione delle capacità sociali e politiche di trasformazione del mondo, recuperate e/o ri-attualizzate all’inizio del secolo per mezzo di lotte molto variopinte e polifoniche, è seguito poi un tempo (che oggi o è collassato, come in Argentina, o si sta incrinando, come in Bolivia) che ha incanalato con difficoltà tutta questa energia sociale verso nuovi processi di accumulazione del capitale re-installando relazioni di tutela tra governanti e governati imposte attraverso nuove e molteplici spoliazioni.

Come va intesa, allora, l’attuale offensiva della destra?

Se una prende le lotte che si sono dispiegate come punto di partenza, allora capisce più chiaramente quello che sta collassando: la forma alterata e alienata dei nostri sforzi precedenti, dei desideri collettivi di trasformazione sociale da noi stessi dispiegati anni fa. L’attuale offensiva della destra, allora, non è altro che la grottesca rivelazione di ciò che già stava succedendo: il rinnovamento del dominio del capitale organizzato nella vigenza della democrazia procedurale come forma emblematica – e quasi unica – del politico. È una fine di quanto siamo riusciti a produrre nell’ondata precedente – e per questo ci si presenta come un fenomeno ciclico-, dunque il cerchio si riapre, in condizioni molto difficili in Argentina, non così avverse in Bolivia e forse in Uruguay.

Come possiamo andare avanti?

Che domanda difficile! Il punto di partenza che noi coltiviamo è che bisogna partire dalle lotte che già si stanno dispiegando davanti ai nostri occhi.. E molte cose stanno accadendo al di là dell’evidente offensiva di frazioni del capitale estremamente reazionarie e forse criminali. In America Latina c’è una gamma molto vasta di lotte in difesa del “comune”, che affrontano e boicottano le azioni di spoliazione più radicali e virulente portate avanti dalle coalizioni transnazionali insieme ai governi locali e nazionali. Generalmente, sono lotte locali, difficili, che affrontano situazioni di violenza sempre più opprimenti, come in Messico o in Honduras. Tutti questi sforzi sottolineano almeno due aspetti molto rilevanti: l’importanza del territorio come luogo dove dispiegare gli sforzi di resistenza e rigenerazione della vita e la presenza massiccia e tumultuosa delle donne in queste lotte.

Cosa suggeriscono i due aspetti che sottolinei?

La lotta “territoriale” è, in genere, una lotta per garantire condizioni dignitose di esistenza -”vida digna”, dicono gli zapatisti. Per comprendere i molteplici sforzi espressi in queste lotte, quindi, vale la pena di porre come punto di partenza la riproduzione materiale e simbolica della vita sociale. Penso che questa chiave di lettura ci offra una migliore piattaforma di analisi di altre prospettive – come quelle che suddividono le lotte in “economiche”, “politiche”, “rivendicative”, ecc. Considerare le diverse lotte per la garanzia del sostentamento – contro l’espropriazione di beni materiali, l’imposizione di routine e ritmi di lavoro eteronomi, ecc- interpretandole come sforzi multiformi per garantire e ampliare le possibilità di riproduzione materiale e simbolica della vita sociale, ci rende comprensibile un insieme molto vario di sforzi collettivi. Non si tratta di pensare che tutte le lotte facciano e cerchino “le stesse cose” ma di capire quello che condividono e, di conseguenza, ciò che può consentire articolazioni politiche al di là del locale. Penso che la grande presenza delle donne in quasi tutte le lotte del recente periodo sia al cuore di nuove possibilità di sovvertire l’esistente e rigenerare altre forme di convivenza e autoregolamentazione.

Tra donne: verso un (dis)ordine della madre

In questo vedi qualcosa di nuovo, di diverso, rispetto ai periodi precedenti?

Ritengo che si siano aperte tre opportunità. Anzitutto, una rivalorizzazione del “tra donne”: in quasi tutte le esperienze che si possono documentare a partire dalla lotta, negli spazi di resistenza territoriale e in altre esperienze di difesa del “comune”, la presenza delle donne non solo è notevole ma, al di là della “lotta generale”, viene recuperata un’attitudine antica delle donne a stabilire degli spazi per riunirsi, per parlare, per dare forza alla loro voce condivisa, per sostenersi a vicenda al momento di far valere i loro punti di vista… Non si tratta di “occupazione di spazi” o non solo, né principalmente, di questo. Si tratta del fatto che la lotta si va tingendo di nuovi colori e che si stanno prendendo in esame e affrontando gravissimi problemi sociali come la violenza domestica, il rafforzamento di pratiche di cooperazione e di accordo molto più fluide, ecc. Il “tra donne” prolifera in tutte le lotte e in molti angoli del panorama sociale dell’America Latina. Questa pratica recuperata del “tra donne” – spesso “oltre il femminismo” liberale intrappolato nelle tecnocratiche “politiche di genere”- ha due importanti aspetti che sono le altre due componenti che ho menzionato prima: spesso colloca come punto di partenza le questioni legate alla riproduzione materiale e simbolica della vita sociale nel loro insieme e, inoltre, si dispiega come “politica del desiderio”, nel senso elaborato da Lia Cigarini, come creazioni che vengono poste “al di sopra della legge” e che per questo sono molto, molto sovversive. Il “tra donne” – che non esclude necessariamente i maschi, ma possiamo dire che li ”filtra”, cercando di contenere ed espellere i maschi violenti, e insieme preservando uno specifico spazio di donne – consente di stabilire e di rendere visibili subito relazioni di interdipendenza che si prendono cura dell’autonomia politica e materiale. Si occupa, inoltre, di una vasta gamma di questioni considerate come non politiche o non pienamente politiche, quindi politicizza lo spazio privato e sfida la distinzione privato-pubblico (tanto cara all’organizzazione capitalista della vita), si apre infine alla prova e al rinnovamento del politico senza presupporre di rifarsi ad alcun canone politico precedente. Attenzione, non è che non conosca il canone [politico]…è che non lo rispetta, lo reinventa, lo deforma, lo sfida. Da qui, la politica del desiderio. È da qui che ritengo si andrà generando la rinnovata energia per la nuova ondata che, speriamo, questa volta possa assomigliare a uno tsunami.

Hai parlato anche di un momento di contro-insurrezione di nuovo tipo che vediamo dispiegarsi nell’offensiva neoliberale e nella recrudescenza della violenza patriarcale. Un momento che genera una “opacità” nei conflitti, un’intenzionale confusione…

Certo…”anche l’altra parte gioca”, come dice Adolfo Gilly. La produzione sistematica di instabilità e di incomprensione è un elemento fondamentale per esercitare il dominio. Pensa a quello che facevano i torturatori degli scorsi decenni che cercavano di spezzare le guerrigliere, i guerriglieri e le organizzazioni attraverso la tortura: privavano del sonno, impedivano di sapere dove ci si trovasse, infrangevano anche i minimi elementi per l’orientamento spazio-temporale, infondevano la sensazione di completa impossibilità di difendersi, ecc. A mio avviso, c’è una specie di uso strumentale della violenza brutale a livello sociale proprio per poterci spezzare: produrre opacità e gestire l’incomprensione verso quanto succede, infondere paura in maniera sistematica… Stiamo vivendo così in questo periodo di guerra mondiale non dichiarata, di distruzione coperta dei territori, di devastazione sociale. È come se il corpo sociale nel suo insieme fosse sistematicamente torturato in qualche fetida stanza di una caserma militare. E quando questo non è sufficiente, allora si dispiega tutta questa esemplare e terrificante “violenza espressiva” di cui parla Rita Segato.

Tutto questo, parte di un ambito più generale della controffensiva contro le nostre lotte, lo si vede pienamente rafforzato dall’appoggio irriflessivo e impunito, oppure cosciente e premeditato, dei tratti più violenti della qualità maschile-dominante dell’accumulazione capitalista e delle sue forme politiche: lo si vede perfino tra alcuni “compagni”. E qui c’è una domanda molto difficile: chi è che chiamiamo compagno? Uno di sinistra, brutale e violento, può essere un compagno? Il padre irresponsabile dei nostri figli, può essere un compagno? E’ un tema molto urgente da discutere.

Per usare le tue parole, vedi in questo il sintomo di una crisi o un appello al disordine di lungo termine?

La mia impressione è che a seguito degli sforzi collettivi di inizio del secolo contro l’ordine dominante e con la proliferazione del “tra donne”, si è messo in discussione e sfidato il carattere patriarcale del dominio del capitale. Adesso assistiamo ad affannosi tenntativi, dolorosi, crudeli e non solo militari, di ripristinare un ordine simbolico maschile dominante già completamente decomposto. Questo si sta verificando in diversi luoghi e in forma frattale: vale a dire che si ripete e si espande. Donne che sul loro posto di lavoro vengono sistematicamente aggredite e molestate -non solo sessualmente-, che nelle loro case vengono “punite” e rimproverate quando sfidano nella pratica le regole del regime patriarcale, ecc. Questo sta accadendo ogni giorno e si lega alla violenza generalizzata nella quale alle volte restiamo intrappolate. A mio avviso, ci sono chiari segnali di un generale incrinarsi dell’ “ordine del padre”. Non c’è chi provvede, non c’è chi stabilisce una “legge” abbastanza giusta, non c’è chi dà senso di appartenenza…per citare le caratteristiche di ciò che è tradizionalmente legato all’ordine simbolico del padre. Tuttavia, si starebbe già generando, ri-generando, e rendendo visibile un ordine simbolico della madre: nelle sfide e nelle lotte dei popoli indigeni, nelle critiche degli ecologisti e nell’enfasi data al carattere creativo di alcuni legami e impegni, nel “tra donne” che si espande… Qui io trovo possibilità di speranza in mezzo alle rovine che abitiamo.


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