IFE Italia

All’origine del populismo

di Lea Melandri
mercoledì 16 agosto 2017

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

(Stralci da L.M. "Amore e violenza", Bollati Boringhieri 2011)

All’origine del populismo

L’individuo e il cittadino: una inimicizia poco interrogata

Quando si constata con sorpresa –come nel caso degli operai che votano a destra- che “identità sociale” e “soggettività politica” sono scisse, si dice, indirettamente, che l’individuo, non solo non coincide col cittadino -anzi, diceva Tocqueville, è il suo “peggior nemico”-, ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia. L’essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell’aspetto dell’esistenza, facendolo diventare unico e centrale.

Dire che nel vissuto del singolo si danno concentrati e confusi bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c’è un ‘territorio’ che sfugge, o esorbita, dai confini della vita pubblica -e quindi irriducibile al sociale-, che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate. Le “viscere” razziste, xenofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l’ambientalismo.

La persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno proceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto. Il “personale è politico”, per chi si preoccupava negli anni ’70 di salvaguardare la grande “unità di classe”, suonava come uno slogan “borghese”. Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, dalle voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori soprattutto dalla cerchia del ceto politico, che il “sociale” tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire una alternativa meno violenta e alienata di società.

Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l’esperienza, sapendo che oggi non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e poteri istituzionali. Per riappropriarsene occorre un sapere di sé capace perciò di confrontarsi con tutti i saperi specialistici, bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della rivista “Lapis”, ha chiamato “un salvifico bilinguismo”:“il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni” (10). Ma si tratta anche si saper affrontare la conflittualità che questo sapere inedito apre in tutti i luoghi in cui siamo presenti.


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