IFE Italia

Ius soli. Un solo diritto, tante storie.

di Chiara Ingrao
venerdì 6 ottobre 2017

C’è qualcosa di particolarmente prezioso, nell’appello degli insegnanti per lo ius soli: il suo pacato spostare lo sguardo, dai fantasmi dell’emergenza alla normalità quotidiana. È intollerabile, per chi dovrebbe insegnare a rispettare cittadinanza e diritti, che a più di 800.000 dei propri studenti, nati o cresciuti in Italia, continui a essere negato il diritto alla cittadinanza. Punto.

Io non so se questa assunzione di responsabilità riuscirà a trovare finalmente ascolto nei luoghi della politica. So che può e deve dilagare ben oltre, rispetto alle 5.000 firme finora raggiunte (è possibile firmare qui): che deve riuscire a risvegliare dal torpore colleghi e colleghe ancora troppo inerti, genitori e famiglie ancora troppo dubbiosi. “Dipende anche da noi, da te, che Jamila veda riconosciuti i suoi diritti”. O Khaled, Jasmine, Yuri, o come che sia. Dare nomi e volti, alla massa informe degli 800.000 “italiani senza cittadinanza”. Costruire una narrazione, non solo una serie di affermazioni. Perché è di narrazioni distorte e delle emozioni che suscitano, sorde a ogni ragionamento, che il razzismo si nutre.

Io sono una narratrice, e in quanto tale vorrei proporre alcune riflessioni, sulla base della mia piccola esperienza. Da tre anni porto nelle scuole la storia di una degli 800.000, in forma di romanzo fiabesco: “Habiba la Magica”. Bambine e bambini discutono con me delle sue avventure, ridono o si interrogano sui suoi problemi, volano con lei sulla scopa magica. Si rispecchiano con naturalezza, nelle sue emozioni e nei suoi sogni: “vorrei essere come Habiba, perché è riuscita a superare le sue paure”… E io mi chiedo: quanto c’è di questa naturalezza del rispecchiarsi, nella nostra narrazione antirazzista? Quanto spesso, di chi viene da paesi lontani, ci ricordiamo di raccontare la forza, la creatività, l’allegria, il coraggio? E quanto spesso invece riproponiamo solo un’immagine di vittime, dell’Altro a cui dobbiamo solidarietà, ma che resta comunque Altro da me?

È una domanda che dentro di me viaggia in parallelo insieme ad un’altra, speculare e solo apparentemente contraddittoria: è possibile lavorare sul rispecchiamento, e contemporaneamente non nascondere sotto al tappeto le difficoltà e i conflitti?

Nella mia storia, la mamma e la zia di Habiba litigano spesso, perché la prima vorrebbe una figlia italiana che si lascia finalmente alle spalle il passato, mentre la seconda pensa che “per Loro tua figlia non sarà italiana mai”, è africana e basta. Habiba di questi litigi si irrita: l’unica identità che le interessa è quella di tifosa giallorossa. Ma quanti e quante, degli 800.000 italiani senza cittadinanza, vivono in famiglie attraversate dagli stessi conflitti?

Mia mamma vorrebbe che mi sentissi algerina, e mio papà italiana. Per me è il contrario: è mia mamma che mi vuole italiano, mio papà no. Mia nonna si arrabbia, se dico che sono modenese, perché la nostra famiglia è di Ferrara. A casa mia dicono che l’italiano è solo la lingua della scuola, ma per me…. Per te, appunto: tu, dentro di te, come ti senti? La mia famiglia è marocchina ma io mi sente italiana. Io mi sento nigeriano, anche se sono nato in Italia. Io metà italiana metà romena. Io metà italiano metà pugliese. Io quando sono in Grecia mi sento italiano, e quando sono in Italia mi sento greco. E io… Ne ho incontrate infinite, nelle classi, di variazioni sul tema: e non dipendevano dalla nazionalità, dalla religione, o dalla presenza in Italia da più o meno tempo. L’identità – sia personale che familiare – è un insieme di mille fattori diversi, ogni volta che provi a ingabbiarla dentro uno schema ti sfugge.

Che ne facciamo di tutta questa complessità, la censuriamo? Raccontiamo una realtà pacificata, in cui tutti gli 800.000 “italiani senza cittadinanza” si sentono italiani e basta? Oppure, per converso, aggiungiamo al già traballante concetto di “ius culturae”, oltre agli esami scolastici, anche un esame delle emozioni? Diamo la cittadinanza solo a chi “si sente” italiano/a al cento per cento, o ci basta il cinquanta? E che ne facciamo di tutti quelli che da decenni dicono di non sentirsi affatto italiani, ma solo padani, o lombardi, o veneti?

Lo abbiamo già visto troppe volte, in luoghi lontani o appena al di là dell’Adriatico: fondare stati e diritti su basi identitarie non cementa le comunità, le frantuma. Le trascina in una corsa insensata ad espellere il diverso, in cui davvero, alla fine, perfino il confine “identitario” fra modenesi e ferraresi può apparire invalicabile. Non è sulla ricerca affannosa di una ”identità comune”, che può fondarsi la cittadinanza; ma sulla fatica quotidiana di gestire la convivenza fra identità molteplici, dentro a un quadro di diritti e doveri uguali per tutti.

Quanto più la narrazione razzista è falsificata e rancorosa, tanto più la nostra deve essere onesta, e non zuccherosa. Deve certamente nutrirsi d’amore; ma non deve temere la rabbia, la ribellione, le sfide a cui ancora non si è trovata risposta. Temi come la violenza in famiglia, o i diritti delle donne, vanno riportati ai casi reali, rifiutando ogni generalizzazione; ma non vanno lasciati alla propaganda razzista. Sono temi nostri, e la cittadinanza serve anche a questo: a dare uno strumento di libertà in più, nelle mani della ragazza che vuole sfuggire a un matrimonio precoce o affermare il suo diritto a decidere della propria vita.

Alle e agli ottocentomila, insomma, che la ricchezza e il peso dell’incontro fra culture li portano fin dentro l’anima, dobbiamo in primo luogo riconoscere questo: che non sono teoremi politici, ma persone a tutto tondo. Ognuno diverso, ognuna speciale, e tutte e tutti figli nostri.


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